mercoledì 26 dicembre 2012

Seppure voleste colpire: politica-mente Latini.


Simona Bertozzi è corpo. Elena Bucci è anima. Elena de Carolis è mente. Giancarlo Ilari è ricordo. Savinio Paperella è stomaco. Marco sgrosso è bocca. Roberto Latini è voce. E ciascuno, a suo modo, riesce a colpire quel che è.

Uomini e donne dal ventre fittizio seduti su semplici sedie nere, probabilmente di plastica. Sipario a led dai possibili mille colori e al centro nulla. Tra le mani lo spettatore si ritrova un foglietto di scena. Si legge che il tutto si svolge “[…]nella semplicità dello stare, non di fronte a voi, ma insieme”.

Può bastare questo rigo a dare giustizia allo spettacolo Seppure voleste colpire, andato in scena ai Teatri di Vita il 14 e 15 dicembre? Può bastare allo spettatore che si chiede fino alla fine il perché di quelle pance posticce su quei corpi placidamente seduti, sapere che è Roberto Latini, il regista, il primo a chiarire come il tutto non è uno spettacolo, non vuole avere la coscienza di esserlo, non ne vuole avere il fine né lo scopo ma che il tutto è semplicemente qualcosa che accade?
Seppur voleste, supposizione che mette in dubbio non solo la possibilità, ma ancor prima il volere del fare, la forza con cui si agisce, il perché che guida il nostro vivere. Colpire, allo stomaco. Ti senti colpire a livello viscerale solo se permetti alle forze in gioco di lasciare un segno sul tuo corpo: e allora forse assume significato quel pancione indossato in scena dagli attori, una metonimia del lasciarsi colpire, del lasciarsi toccare e del saper colpire, del saper toccare. O forse quel pancione è una barriera, un giubbotto antiproiettile che finge una dilatazione del bersaglio celando l’insensibilità del punto stesso. Ma poi, è così importante chiedersi fino alla fine il perché? Perché in principio è una voce quella che ci prende allo stomaco, ci butta dentro mentre braccia nel buio eseguono movimenti non confusi né ordinati? Perché gli altri “stanno a guardare” mentre un loro compagno acquista il centro, e inizia ad agire con la voce, con il corpo? Ricerche poetiche vivono in dialetti gutturali che giocano con sapienti movimenti fisici, accompagnati da un calice di vino. Perché subito dopo arriva Ismene a urlare in faccia ai sapienti che la morte di Antigone è il canto di odio verso la vita solo apparentemente giustificato dall’amore fraterno, e lo fa in piedi, su un tavolo ricoperto di terra?

“Paura, attesa, ansia…austerità che moltiplica la distanza tra me e me...”

Perché io spettatore non posso fare a meno di pensare alla terra che tutto copre e al flusso del vino che tutto oscura. Non ci dev’essere risposta certa a quel che si può semplicemente sentire. Il corpo di Simona Bertozzi trascina in apnea la platea: nella sua presenza, sapiente e drammatica, ci fa sentire astanti inermi, spettatori crudeli che osservano un ammasso di carne contorcersi alla ricerca della voce e del respiro.

“...Poi gli chiesi di dirmi con gli occhi se voleva chiedermi qualcosa.”

Arriva una panchina e il corpo si placa, la voce si quieta nel fischio, nel richiamo. Due persone che danno da mangiare ai piccioni. L’anziano fischia meglio del giovane, più a lungo, più forte. Poi iniziano a mangiare loro stessi dal cartoccio che tengono fra le mani: mangiano quello che stanno buttando a terra, si ingozzano voraci finché non arrivano i piccioni, finché non si rendono conto che proteggono, sigillano, nascondono fra le mani quello che poco prima senza problemi concedevano ad animali che non li degnavano della loro presenza. Il verso del volatile libera l’uomo dalla sua ossessione, dal suo buttarsi a terra e mettersi in bocca quello che finora calpestava. E libera gli spettatori dell’ultima risata.
La donna che riconquista la femminilità nel procurare piacere attraverso il dolore, prestandosi al gioco masochista di chi la paga per soddisfare le sue voglie più o meno perverse senza sapere che attraverso queste è lei, libera di flagellare, la vera cliente. È lei che prende a schiaffi i suoi ricordi, i suoi dolori, i suoi uomini che tutto le hanno chiesto, tutto le hanno imposto. Lei che tutto ha mandato giù, nel parlare sboccata di come il contatto con quel corpo le riempie l’anima si prepara a uscire dalla sua quotidiana rivincita, per ripiombare nella fossa comune. Nel frattempo c’è spazio anche per Čechov: il vecchio Vasilij Vasil’ ic scruta pensando alla fossa oscura della platea che corrode la vita di coloro che le dedicano le ore migliori, mentre il caro Nikita, con voce meccanica e nasale, lo abbandona alla sua solitudine, senza piangere al suo fianco. E torna la forza della voce, del canto, nell’immagine della Zaira che vive senza regole ingorda di vita, ingorda di spazi da riempire, per non fare la fine del povero gufo che preferiva vivere senza un centimetro di spazio in cui muoversi, pur di non provare la paura della solitudine. E intanto si invoca a gran voce l’amore (perduto? lontano?) in mezzo al caos, in mezzo alle macerie, in mezzo alle rovine. Se qualcosa è rimasto, vuol dire che qualcos’altro si è distrutto. E se qualcosa si è distrutto, vuol dire che qualcos’altro ha colpito.
Alla fine si gioca a golf. Si colpisce una pallina mentre si ride, leggeri. Anzi no. Non è una sola la pallina, si lascia scorrere sullo spazio illuminato della scena rotolanti corpi bianchi da centrare con mazze da golf. Una di quelle mazze serviva da appoggio all’entrata iniziale di Latini, una di quelle mazze era stata lasciata li, in scena, come una spada da cavaliere, e poi subito portata via. Adesso tutti hanno un qualcosa da colpire con un qualcosa che colpisce. Basta solo volerlo.
Elvira Scorza

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