Simona
Bertozzi è corpo. Elena Bucci è anima. Elena de Carolis è mente.
Giancarlo Ilari è ricordo. Savinio Paperella è stomaco. Marco
sgrosso è bocca. Roberto Latini è voce. E ciascuno, a suo modo,
riesce a colpire quel che è.
Uomini
e donne dal ventre fittizio seduti su semplici sedie nere,
probabilmente di plastica. Sipario a led dai possibili mille colori e
al centro nulla. Tra le mani lo spettatore si ritrova un foglietto di
scena. Si legge che il tutto si svolge “[…]nella semplicità
dello stare, non di fronte a voi, ma insieme”.
Può
bastare questo rigo a dare giustizia allo spettacolo Seppure
voleste colpire, andato in scena ai Teatri di Vita il 14 e
15 dicembre? Può bastare allo spettatore che si chiede fino alla
fine il perché di quelle pance posticce su quei corpi placidamente
seduti, sapere che è Roberto Latini, il regista, il primo a
chiarire come il tutto non è uno spettacolo, non vuole avere la
coscienza di esserlo, non ne vuole avere il fine né lo scopo ma che
il tutto è semplicemente qualcosa che accade?
Seppur
voleste, supposizione che mette in dubbio non solo la
possibilità, ma ancor prima il volere del fare, la forza con cui si
agisce, il perché che guida il nostro vivere. Colpire, allo stomaco. Ti senti colpire a livello viscerale solo se permetti
alle forze in gioco di lasciare un segno sul tuo corpo: e allora
forse assume significato quel pancione indossato in scena dagli
attori, una metonimia del lasciarsi colpire, del lasciarsi toccare e
del saper colpire, del saper toccare. O forse quel pancione è una
barriera, un giubbotto antiproiettile che finge una dilatazione del
bersaglio celando l’insensibilità del punto stesso. Ma poi, è
così importante chiedersi fino alla fine il perché? Perché
in principio è una voce quella che ci prende allo stomaco, ci butta
dentro mentre braccia nel buio eseguono movimenti non confusi né
ordinati? Perché gli altri “stanno a guardare” mentre un loro
compagno acquista il centro, e inizia ad agire con la voce, con il
corpo? Ricerche poetiche vivono in dialetti gutturali che giocano
con sapienti movimenti fisici, accompagnati da un calice di vino. Perché subito dopo arriva Ismene a urlare in faccia ai sapienti che
la morte di Antigone è il canto di odio verso la vita solo
apparentemente giustificato dall’amore fraterno, e lo fa in piedi,
su un tavolo ricoperto di terra?
“Paura,
attesa, ansia…austerità che moltiplica la distanza tra me e me...”
Perché
io spettatore non posso fare a meno di pensare alla terra che tutto
copre e al flusso del vino che tutto oscura. Non ci dev’essere
risposta certa a quel che si può semplicemente sentire. Il corpo di
Simona Bertozzi trascina in apnea la platea: nella sua presenza,
sapiente e drammatica, ci fa sentire astanti inermi, spettatori
crudeli che osservano un ammasso di carne contorcersi alla ricerca
della voce e del respiro.
“...Poi
gli chiesi di dirmi con gli occhi se voleva chiedermi qualcosa.”
Arriva
una panchina e il corpo si placa, la voce si quieta nel fischio, nel
richiamo. Due persone che danno da mangiare ai piccioni. L’anziano
fischia meglio del giovane, più a lungo, più forte. Poi iniziano a
mangiare loro stessi dal cartoccio che tengono fra le mani: mangiano
quello che stanno buttando a terra, si ingozzano voraci finché non
arrivano i piccioni, finché non si rendono conto che proteggono,
sigillano, nascondono fra le mani quello che poco prima senza
problemi concedevano ad animali che non li degnavano della loro
presenza. Il verso del volatile libera l’uomo dalla sua ossessione,
dal suo buttarsi a terra e mettersi in bocca quello che finora
calpestava. E libera gli spettatori dell’ultima risata.
La
donna che riconquista la femminilità nel procurare piacere
attraverso il dolore, prestandosi al gioco masochista di chi la paga
per soddisfare le sue voglie più o meno perverse senza sapere che
attraverso queste è lei, libera di flagellare, la vera cliente. È
lei che prende a schiaffi i suoi ricordi, i suoi dolori, i suoi
uomini che tutto le hanno chiesto, tutto le hanno imposto. Lei che
tutto ha mandato giù, nel parlare sboccata di come il contatto con
quel corpo le riempie l’anima si prepara a uscire dalla sua
quotidiana rivincita, per ripiombare nella fossa comune. Nel
frattempo c’è spazio anche per Čechov:
il vecchio Vasilij Vasil’ ic scruta pensando alla fossa oscura
della platea che corrode la vita di coloro che le dedicano le ore
migliori, mentre il caro Nikita, con voce meccanica e nasale, lo
abbandona alla sua solitudine, senza piangere al suo fianco. E torna
la forza della voce, del canto, nell’immagine della Zaira che vive
senza regole ingorda di vita, ingorda di spazi da riempire, per non
fare la fine del povero gufo che preferiva vivere senza un centimetro
di spazio in cui muoversi, pur di non provare la paura della
solitudine. E intanto si invoca a gran voce l’amore (perduto?
lontano?) in mezzo al caos, in mezzo alle macerie, in mezzo alle
rovine. Se qualcosa è rimasto, vuol dire che qualcos’altro si è
distrutto. E se qualcosa si è distrutto, vuol dire che qualcos’altro
ha colpito.
Alla
fine si gioca a golf. Si colpisce una pallina mentre si ride,
leggeri. Anzi no. Non è una sola la pallina, si lascia scorrere
sullo spazio illuminato della scena rotolanti corpi bianchi da
centrare con mazze da golf. Una di quelle mazze serviva da appoggio
all’entrata iniziale di Latini, una di quelle mazze era stata
lasciata li, in scena, come una spada da cavaliere, e poi subito
portata via. Adesso tutti hanno un qualcosa da colpire con un
qualcosa che colpisce. Basta solo volerlo.
Elvira
Scorza
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