I fantasmi esistono.
Vuoti, assenze e appuntamenti. Si parla a vuoto. Andare ma non evadere, dire e
non dire.
Eva Robin’s, nome
d’arte di Roberto Coatti dal personaggio
di Eva Kant e dal cognome dello scrittore Harold Robbins, interpreta Il Frigo, monologo di Copi, scrittore e
fumettista franco-argentino, per la regia di Andrea Adriatico martedì 20 e mercoledì 21 novembre ai Teatri di Vita. Eva rappresenta i due
sessi e la loro incomunicabilità. Eccentrica per natura, naturalmente
esibizionista del suo corpo misto. Transessuale in transito, forse in transito
o forse non si muoverà mai. Rispecchia in pieno la filosofia dei Teatri di
Vita: “Teatro d’innovazione in cerca di stabilità”, o forse no. Istrionica e
plateale nella vita e sulla scena. Il regista, Andrea Adriatico, riporta in
scena Copi “con gli umori di oggi” per l’ottavo anno di repliche. Una Eva
biblica tra peccato e santità, estranea alla vicenda e, allo stesso modo,
partecipe. Partecipa ai lutti, agli stupri, ai monologhi tra gli Altri da sé.
Straniera, diversa, estranea in casa propria. I personaggi che interpreta,
proiezioni della sua stessa figura, fanno e affermano cose che non coincidono,
non riescono a comunicare tra loro e recidivamente si ripetono intrattenendo
rapporti di dipendenza patologici. Un impulso irrefrenabile a parlare di tutto
e di niente. “Il silenzio è impossibile”. Si dice e si nega subito dopo, si
denuncia una violenza e si acconsente subito dopo.
Cucina, letto, pranzo,
soggiorno. Quando lo spettatore entra in sala trova una planimetria schematica,
essenziale e tridimensionale per quei pochi oggetti: una sedia rossa
postmoderna, un telefono alla Cocteau, un campanello da pascolo e l’immancabile
frigo. Un telefono che riesuma Cocteau con quel filo che si fa spartiacque tra
fiume e riva. La protagonista L. è seduta immobile e non ricorda il suo nome.
Luci assordanti che disturbano ma non turbano, passi veloci e trascinati, voci
alterate e pose plastiche. Suona il telefono. Bussano alla porta. Adriatico
costruisce una realtà plastica e immateriale, talmente realistica, pensata e
progettata da risultare usa e getta. Una storia di stupri e violenze subiti e
inventati. Una carta da parati psichedelica e una grande abilità nel cambiarsi
d’abito e di voce. Eva, taciturna, posa lo sguardo su un punto cieco e aspetta
a parlare finché l’ultimo spettatore si sia accomodato. Poi, a porte chiuse, un
flusso di parole e pause. Piatti rotti, squilli, violenze scandiscono la
dimensione del non tempo di cui è prigioniera. Niente scale, niente ascensore,
nessuna via d’uscita. Aspetta il momento giusto per scrivere le sue memorie. Ogni
giorno puntualmente violentata dal custode e infastidita dalla serva dà vita al
suo doppio maschile in abito nero con baffi alla Chaplin, alla madre egoista
che si fa viva per appuntamento e si riempie la bocca di soldi e gigolò, alla
serva che, con la sua sciatta seducente grettezza, la pugnale alle spalle, al
topo con gli occhi azzurri, alla psicanalista che altro non è che una bambola
gonfiabile con una noce di cocco piumata per cappello. Intrattiene rapporti di
amore estremo e selvaggio. Il sesso, l’incesto, il proibito per legge e natura
è quel filo che tiene insieme i rapporti tra i personaggi.
Una esuberante e timida
Eva Robins, sobria e brilla, androgina e transessuale, sana e insana.
Ermafrodita e nuda si svela agli occhi indiscreti del pubblico in una veste
trasparente di piume che non lascia spazio alla fantasia sui due sessi. Metà
donna e metà uomo. Sprovvista di metafore. In preda a uno schizofrenico
travestitismo, fino a raggiungere le sembianze di un cane incontinente. Uomini
che a più riprese bussano alla sua porta e abusano di lei con il suo tacito
consenso. Urla di piacere. Gli spettatori rispondono all’ironia e si mostrano
divertiti e partecipi. Una pentola al quarzo esplode. Luci spente. Si vuole
pungolare lo spettatore nel sonno a cui induce la poltrona comoda del teatro.
Si vuole una reazione fisica e intenzionale. Eva è disturbata emotivamente e
sessualmente. Un fantasma retrò, sodomita incallita, baffuto masochista con una
domanda in fondo all’anima: “Chi sono?” e una risposta: “Non usciremo mai di
qua. Mai, mai, mai”. Una dura prova d’attore per Eva Robin’s che davanti a due
disturbatori/molestatori dal pubblico non si fa intimidire ma continua
imperterrita. I loro interventi si sovrappongono alle battute di L. I due “eroi
da palcoscenico” si alzano in piedi e, a passi pesanti, si spostano in prima
fila continuando a parlare e applaudire. Una dei due è una donna con accento
anglosassone che comincia a filmare spettacolo e spettatore accanto. Una pazza
rinchiusa in casa con un frigo misterioso in soggiorno. Un regalo della madre?
Quel frigo che viene quasi aperto ma un urlo interrompe tutto. Cosa contiene il
frigo di Copi? Il cadavere della madre? Un ascensore? Una cassaforte dove
rinchiudere gli o/errori della vita, i ricordi di un passato mai vissuto
veramente, di un presente sbagliato e di un futuro incerto. Il frigo diventa,
nelle intenzioni di L., una tomba da seppellire in fondo alla terra insieme
alle ceneri del padre morto da tempo. Una sola certezza: L. è prigioniera di
quel rifugio che è la sua casa, vittima della solitudine e di quel frigo.
"Cosa aspettate?
Nel Frigo spuntato nel salotto di Eva Robin's c'è posto anche per voi. Tra un
cane incontinente e un topo innamorato...”
Nessun commento:
Posta un commento