venerdì 25 febbraio 2011

My arm: il braccio alzato di una generazione.


Cosa siete disposti a fare pur di “essere qualcuno”? Il protagonista di My arm, scritto da Tim Crouch, visto a Teatri di Vita a Bologna, è riuscito ad esempio a tenere il proprio braccio alzato per anni. 


 L’autore, attore e regista britannico contemporaneo ha esordito per il teatro nel 2003 proprio con questo testo che racconta la storia di un trentenne di oggi dell’Isola di Wight che fin da piccolo cominciò a sfidare se stesso e la noia del vivere quotidiano, cercando passatempi stravaganti. Un’affascinante ricreazione intellettuale, se accostata alla solita TV, alla poltrona e ai video games. Le gare che riuscivano a inventare lui e il suo fratellino erano per il mondo degli adulti considerati paradossali, ma utili per farsi notare. Così: “vediamo chi riesce a trattenere più a lungo il respiro” o “per quanto tempo riesci non andare in bagno?” o “io so stare con il braccio alzato”. Queste piccole sfide erano il simbolo della propria tenacia, della propria forza, del proprio carattere. Era una questione d’identità, direbbe forse la psicologia, ma per i ragazzini era naturalmente motivo d’orgoglio. Tenendo il braccio alzato, il nostro eroe aveva scoperto un modo per essere al centro dell’attenzione: il primo giorno non andò a scuola, dopo quattro si era già fatto rimproverare dalla mamma, alla quinta settimana era il primo bambino di dieci anni con l’analista. Poi cominciò a prenderci gusto: era diventato il ragazzo con il braccio alzato. Dopo un paio d’anni, lo volevano nei musei, l’arte aveva cominciato a interessarsi a lui, era riuscito a far diventare la sua performance un lavoro ben retribuito. Fino a quando però il braccio andò in cancrena: da senso di vita, si era trasformato in motivo di morte. 

 La Compagnia degli Artefatti ha portato in scena questa pièce camuffata da autobiografia, con la regia di Fabrizio Arcuri e con l’interpretazione di Matteo Angius e Emiliano Duncan Barbieri. Formatasi all’inizio degli anni Novanta, la compagnia romana ha da qualche anno sviluppato l’attenzione alla drammaturgia contemporanea e in particolare a quella anglosassone attraverso i testi di Sarah Kane, Martin Crimp, Tim Crouch e Mark Ravenhill. La messa in scena della pièce inglese è fortemente legata all’arte performativa e a vari tipi di linguaggio che diventano, come in un gioco di specchi, tanti rimandi del protagonista. Lo vediamo, infatti, in scena che recita e interloquisce con gli spettatori; ma lo vediamo anche in uno schermo gigante alle sue spalle con una registrazione muta che l’attore non perde occasione di sottolineare; lo vediamo ancora in uno schermo più piccolo con una presa in diretta dalla quale ci presenta la sua vita; e poi lo vediamo sotto forma di piccolo Big Jim che tiene il suo braccio alzato. Un continuo rimando di identità, una continua ricerca dell’essere: chi è davvero il protagonista? È quello che è in scena? È quello che si racconta? È quello che si vede? Chi dei tanti? 

 È uno spettacolo che rigetta la realtà in faccia allo spettatore con un’amara ironia. Emiliano Duncan Barbieri ha accompagnato con la sua chitarra elettrica lo spettacolo, riesumando pezzi degli anni’70, periodo dal quale, del resto, parte la storia. E poi c’è la recitazione di Matteo Angius: il suo modo è veramente ammaliante, conquista con i suoi occhi teneri, furbi e ironici, con la sua voce calda, profonda e sbarazzina. Ma soprattutto è un ragazzo di 30 anni nella vita e nella scena: attore e personaggio si confondono facilmente al punto che alla fine il bravo Angius ha dovuto ribadire: “È finito. È veramente finito”.

Josella Calantropo

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