Nell’aprile dello scorso anno ho partecipato all’audizione
per il ruolo di tersicoreo dell’opera di Gioachino Rossini Guillaume Tell, la
cui regia era affidata al noto Graham Vick. La sezione maschile dei danzatori
era affollatissima e la speranza di raggiungere l’ultimo step del tutto vana.
Eppure, quando il palcoscenico del Teatro Rossini di Pesaro ha fatto posto ai
nove prescelti, stentavo a credere a quel «sarà un vero piacere lavorare con te».
Sembrava solo l’inizio di una nuova esperienza professionale, ma in realtà
stava per compiersi un viaggio nel più profondo del mio essere, un percorso
così introspettivo da fare invidia alla perejivànie, la reviviscenza stanislavskijana.
Le tre settimane di prove avevano inizio agli albori della stagione estiva, quando il picco della calura vinceva su resistenza fisica e creatività, assolutamente necessarie per i workshop giornalieri che il coreografo Ron Howell ci richiedeva di effettuare. Esigeva, infatti, che le nostre performance, ballate o recitate che fossero, non apparissero artefatte o meramente adattate alla musica di sottofondo, bensì del tutto naturali, quasi espulse direttamente dall’anima senza alcun filtro. Sebbene, dunque, le indicazioni fossero essenziali, le tematiche erano universali: oppressione e libertà, fatica e ozio, perfidia e compassione. Lo sforzo previsto era immane, ma totalmente ripagato dagli applausi del pubblico, scroscianti fino all’ultima recita di fine agosto.
Le tre settimane di prove avevano inizio agli albori della stagione estiva, quando il picco della calura vinceva su resistenza fisica e creatività, assolutamente necessarie per i workshop giornalieri che il coreografo Ron Howell ci richiedeva di effettuare. Esigeva, infatti, che le nostre performance, ballate o recitate che fossero, non apparissero artefatte o meramente adattate alla musica di sottofondo, bensì del tutto naturali, quasi espulse direttamente dall’anima senza alcun filtro. Sebbene, dunque, le indicazioni fossero essenziali, le tematiche erano universali: oppressione e libertà, fatica e ozio, perfidia e compassione. Lo sforzo previsto era immane, ma totalmente ripagato dagli applausi del pubblico, scroscianti fino all’ultima recita di fine agosto.
Dopo un anno di pausa, il mio viaggio nella leggenda dell’eroe
svizzero ha raggiunto il Teatro Comunale di Bologna, dove l’ingerenza di nuovi
spazi e direttive sceniche è del tutto sfumata dinanzi alla vivida immutabilità
delle emozioni, vere protagoniste secondo il genio creativo del regista di
Birkenhead.
In un balzo temporale di circa seicento anni, la storia del
popolo elvetico, prima oppresso poi rivalso, viene catapultata in una
mastodontica sala bianca, tanto splendente quanto soffocante, al cui interno una
macchina da presa primo novecentesca immortala tutto lo scorrere dell’azione
scenica. Il balivo Gessler signoreggia col suo seguito di scagnozzi e
aristocratici: è necessario, dunque, documentare quanto bella sia la Svizzera
grazie alla loro reggenza.
La prima scena funge da perfetta vetrina di questo doloroso corso degli eventi: da un lato la nobiltà, in abiti ben mimetizzati col resto dell’allestimento, si erge su quella che il regista definiva la white box, una sorta di palco d’onore nel teatro della supremazia austriaca; dall’altro il popolo, provvisto di misere vesti e cenci, striscia sul pavimento per lucidarlo al meglio. Tutto è al suo posto e nulla può (almeno per ora) cambiarlo. Il soave canto di Roudi il Pescatore riesce ad allietare gli animi spaventati, eccetto quello di Guglielmo Tell che, sin da subito, manifesta apertamente il desiderio di riscatto per i suoi compatrioti. Dall’alto della “scatola bianca” ha avuto luogo la mia prima apparizione, pienamente calato nei panni dell’aristocratico altezzoso, ma nello stesso tempo pronto a rivestire quelli da popolano per la scena successiva.
Nel fulmineo cambio di costume mi sono apprestato a
condividere col pubblico nuove sensazioni, quelle di speranza per un futuro
migliore e di consapevolezza dell’arduo impegno per ottenerlo. È il momento più
toccante del primo atto: il matrimonio delle tre giovani coppie (interpretate
da sei miei colleghi), benedetto da Melcthal, il più anziano della comunità.
Lungo la balaustra di destra ho ammirato la cerimonia, così minimale come
pregna d’infinita dolcezza, fino a quando il suono dei corni degli uomini di
Gessler ha sconquassato l’atmosfera e allarmato tutti gli astanti. A quel punto
il mio unico assolo ha preso forma tra gli sguardi ipnotizzati degli spettatori
e le austere note del coro femminile: con l’invocazione d’Hyménée una breve
pantomima si è trasformata in un inno alla libertà, all’accettazione totale
della propria individualità e al rispetto della terra natia, che i soprusi
degli asburgici intendevano prepotentemente schiacciare. Coreograficamente la performance
imponeva di cadere gradualmente verso il suolo per la pressione di una scarpa
sulla testa: mai altra mimica sarebbe stata più azzeccata per rendere chiaro il
messaggio voluto!
Non erano previsti altri ingressi in scena se non prima del terzo atto, il più arduo a livello tecnico, il più logorante a livello umano. Strizzato in uno smoking nero di alta classe, suggeritore di massima eleganza e raffinatezza, ho dovuto radicalmente convertire la mia personalità per assumere i panni di un perfido aristocratico dall’animo spietato e dalla completa mancanza di rispetto per gli uomini (e soprattutto le donne) di diverso status sociale.
Il training psicologico è stato fortemente complesso, dato
che il regista e il coreografo concordavano appieno nell’idea di assoluta
immedesimazione nel personaggio: ricordo benissimo quante lacrime ho versato
quando insistentemente mi venne richiesto di trattare realmente una delle
danzatrici come una marionetta, con la quale trastullarmi senza inibizioni.
Tuttavia, questo macabro gioco è davvero valso la candela. Il realismo con cui,
in estrema concentrazione, sono riuscito a tenere salda l’interpretazione ha
stimolato gli applausi fragorosi, ma anche sincere grida di disapprovazione: in
entrambi i casi si è trattato di un successo, perché il vero monito di Graham
Vick era stato colto dai presenti in sala.
Animato dallo spirito combattivo, incitato dall’anatema di
Tell al suo acerrimo nemico e invocato in coro dal resto della popolazione
soggiogata, ho indossato ancora gli stracci consunti da svizzero - questa volta
però battagliero e sprezzante del pericolo. Insieme coi miei compagni
d’avventura, oltre il fondale di scena, ho assistito al finale dell’opera,
estasiandomi tanto quanto gli spettatori alla vista dell’enorme scala
triangolare, discesa dal tetto della scenografia. I gradini rossi, calpestati
timidamente da Jemmy (figlio di Guglielmo Tell), rappresentavano la via della
salvezza, della libertà, del coraggio: raggiungervi l’auge era la vera vittoria
del Bene sul Male. Le parole di giubilo dell’ultima melodia non hanno fatto
altro che porre la cornice perfetta al quadro, ritmando simultaneamente, ad
ogni colpo di grancassa, i pugni issati al vento a rompere le barriere della
malvagità.
Marco Argentina
In scena al Teatro Comunale di Bologna
8, 11, 14, 16 e 18 ottobre 2014
Ma è un blog di critica teatrale o un diario auto celebrativo?
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