L’arte del Teatro riesce sempre a diffondere una scia
d’incanto, tanto tra il pubblico seduto comodamente in poltrona quanto dietro
le quinte del palcoscenico. Lasciarsi trascinare è, dunque, inevitabile,
soprattutto quando si ha l’emozione di essere stati scelti per farne parte.
La mia recentissima esperienza di mimo all’interno
dell’opera Evgenij Onegin, in calendario al Teatro Comunale di Bologna dall’1
al 9 aprile 2014, ne è stata la dimostrazione: quando ricevetti da parte del Responsabile
dell’Ufficio Regia Gianni Marras la telefonata di convocazione per un’audizione
in qualità di figurante, avvenuta a seguito di un’accurata selezione tra i curricula
vitae archiviati, stentai a credere alle mie orecchie.
Le prove, iniziate intorno alla metà di marzo, riservarono sin
da subito delle piacevoli – e al contempo disarmanti – sorprese. Emil Wesołowski,
stimato coreografo polacco di tradizione classico-accademica, introdusse la
sequenza di passi della prima entrata in scena avvertendo me e i miei colleghi
che avremmo dovuto interpretare il ruolo di tre contadinotti, goffi e
scoordinati, selezionati per danzare al cospetto dei gentiluomini, protagonisti
del dramma. Ovviamente la risata faceva da padrona in quella minuscola sala da
ballo, ma il velo d’ironia di questa piccola scena del secondo atto aveva solo
il compito di smorzare lievemente la tragicità delle circostanze, allietando
gli sguardi del pubblico in sala con abiti dai colori sgargianti, luci
fosforescenti e le simpatiche note dell’aria di Triquet, egregiamente
interpretato dal tenore Thomas Morris.
Difatti, i suggerimenti ricevuti dall’eclettico regista Mariusz
Treliński votavano perpetuamente a enfatizzare il meno possibile qualsiasi
linguaggio corporeo, prediligendo di contro un forte senso di austerità e
magnificenza, incorniciato da ammiccanti sorrisi e ringraziamenti verso gli
astanti.
Se questo primo ingresso in scena appariva poco impegnativo,
il secondo richiedeva una dose di concentrazione e precisione dei movimenti
tale da confondersi con quella impiegata in una performance di danza butō,
evocata più volte dallo stesso regista polacco come valido exemplum.
Si trattava dell’ultima scena del secondo atto, quella del
duello tra il protagonista omonimo dell’opera e il suo più caro amico, Vladimir
Lenskij, sopraffatto dal Destino di morte. A loro si affiancavano Zareckij,
secondino del moriturus, e Guillot, giovane servo di Onegin e testimone della
sua vittoria. Proprio di quest’ultimo personaggio ho indossato le vesti, quasi
fino al punto di cucirle addosso al mio spirito. Nell’interminabile camminata
d’ingresso in scena, lenta ma vigorosa, penetrava in me la consapevolezza della
tragedia che stava di lì a poco per verificarsi e, soprattutto quando i ruoli
dei duellanti erano interpretati dalla coppia Artur Rucinski/Sergej Skorokhodov,
mi travolgeva una tale valanga di emozioni da sentire il bisogno di sostenermi
davvero col bastone del costume di scena.
E persino nel momento dello sparo, seppur consapevole della
finzione teatrale, il mio respiro veniva comunque smorzato dall’intenso pathos
dell’azione scenica, alimentato dal candore – oserei dire – opprimente dell’ “occhio
di bue”, del vestito del defunto e della neve che accarezzava dolcemente le
maniche del mio cappotto.
Pregno di cotanta gravità d’animo, mi apprestavo a svolgere
il compito più faticoso, quello di restare in scena per tutta la durata del
terzo e ultimo atto, il più drammatico e angosciante.
Insieme coi miei quattro colleghi, vestiti interamente di
nero e imbevuti di un’aria cupa e tenebrosa, mi muovevo sempre intorno al
protagonista, accerchiandolo più volte per issarlo e poi lasciarlo crollare sul
pavimento: noi cinque eravamo la sua coscienza, annerita dalla colpa di aver
rinunciato all’affetto di Tat’jana, unica donna in grado di accettare il suo stile
di vita dandy. A guidarci, come un abile manipolatore di burattini, era “O”, la
vera novità di questa produzione lirica: un personaggio fortemente eloquente
nel mutismo del suo ruolo, interpretato dallo stesso coreografo Wesołowski e
meritevole delle ovazioni ricevute alla fine di ogni recita.
La vocale del nome equivaleva a quella di Onegin: era il suo
alter ego, ma anche il suo fantasma; il suo passato, ma anche il suo futuro. Lo
yin e yang di un uomo perennemente tediato dalla vita, ma nello stesso tempo
scosso da incontrollabili paturnie amorose, giudici del suo Destino fino al tragico
epilogo. Avvolto in una pesante tovaglia di velluto purpureo e illuminato da
cinque deboli fiammelle, il “vecchio” Evgenij si lascia morire tra le braccia
dei suoi scagnozzi placando per sempre i rimpianti della vita.
Marco Argentina
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