venerdì 18 aprile 2014

Senz'aria da vedere: il desiderio di vita di Maisia Teatro

Lo spazio stretto, quasi mentale, in cui lo spettatore si ritrova a essere catapultato, fa dello spettacolo Senz’aria della compagnia Maisia Teatro una pièce psicologica. Ci accomodiamo in una piccola sala, in via De’ Malcontenti a Bologna, che solo dopo scopriremo contenere segreti impronunciabili.
Dalle parole del foglio di sala conosciamo le sorelle De Montis: Addolorata detta Ada (Elina Nanna) e Immacolata detta Imma (Francesca Bagnara). Forte e severa la prima, debole e sorridente la seconda. Una indossa vestito e trucco total black,  l’altra uno spezzato bianco e nero. È un rapporto ambiguo che affonda le radici in un passato nascosto, ma che emerge lento e tormentato. La storia procede con gesti lenti, solenni, e dialoghi funerei, che smorzano qualsiasi accenno di vitalità della secondogenita.


La dimora è rappresentata sul palco da un tavolo e sedie rivestiti di stoffa bianca, con un set di tazzine da tè: uno scorcio che con le sue piccole quinte allude ad angoli della casa che devono rimanere segreti. Luci bianche e ombre fanno pressione a un’atmosfera macabra, accompagnata da strumenti a corda pizzicati e tamburelli salentini.
Ritroviamo le due protagoniste in sala da pranzo a disquisire della poca serietà di Imma, a cui dover imporre più rigore e arte del risparmio economico. 


Tra urla, pianti e imposizioni emerge chiaro il carattere psicolabile delle donne, in fondo ancora bambine. Comportamenti figli di traumi infantili che sono stati somatizzati e rinchiusi in un carillon (simbolo della spensierata fanciullezza) che le donne-bambine regalano a ogni ospite che le va a trovare. A varcare la soglia di casa è la giovane Bianca Nicolini (Irene Geninatti Chiolero), che cerca una stanza in affitto. Una presenza equilibrata, anche nei colori che indossa, tanto che incute quasi timore alle sorelle: coalizzate in una relazione ambigua in bilico tra amore fraterno e carnale, desiderano offrire l’invadente affetto anche all’ospite, che scappa spaventata.
Poi c’è Remo, il maggiordomo calvo. Il narratore vestito di grigio, interpretato dal regista Gianvito Pascale, apparecchia e sparecchia la tavola. Costretto a fingersi sordo muto, nella seconda parte svelerà la psicosi della vicenda: il carillon regalato a ogni ospite della casa simboleggia l’uccisione di questi ultimi, “loro non uccidono, ma è come se lo avessero già fatto”.


Tra le distese di ulivi centenari e nenie di chiesa, a cui le due fedeli non mancano mai una domenica, la sorella più piccola confessa al suo animo – e allo spettatore – il disprezzo per una madre presente ma prigioniera delle pasticche.  Incapace di badare alle figlie, di capirle, di giocare con loro, e nemmeno di ascoltarle suonare: le note del pianoforte suonate dai pargoli si infrangevano contro le pareti, invano, disprezzate dal mal di testa della madre, ormai senza forze. E ci confessa ancora di urla straziate, mentre accarezza le sue bambole.
Le mura della casa stanno strette, restituiscono soffocamento e inquietudine. L’unico barlume di luce sono le immagini proiettate sul fondale del palco, che raffigurano una foto delle bambine in tenera età e un muro di mattoni rossi.  La madre, incarnata ora nel corpo della sorella maggiore, fissa il vuoto e giustifica la sua scelta di murare vive in casa le sue figliolette per una vita intera. Intendeva proteggerle dalle maldicenze del paese, dalla sozzura del mondo.  Passano una vita senz’aria, ma protette: da cosa?


Così il teatro ritorna alla sua antica funzione, quella di ricordare i sacrifici umani: le due donne, uccise dalla madre, ritornano a presentare le loro vite tormentate solo tramite il racconto. Il delitto, compiuto tanto tempo prima, viene in questo modo espiato tramite l’incontro col pubblico. Sembra quasi che la morte, anche se terribile e per soffocamento, sia una liberazione da quella casa che toglie il respiro: la corda annodata al collo che “co-stringe” dunque alla libertà.


Visto all'Officina Teatrale dei Malcontenti, Bologna

A.S.

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