Mercuzio non vuole morire: Armando Punzo e la sua Compagnia della Fortezza sussurrano questa frase, la gridano, la scrivono, la trasformano in slogan.
Perché, in realtà, Mercuzio rischia di morire ancora oggi, forse mai come oggi. Mercuzio muore quando il potere mette all’angolo gli artisti e gli uomini di cultura non allineati, schiacciandoli attraverso le armi subdole, impersonali e implacabili del livellamento intellettuale e delle restrizioni economiche.
Eppure può succedere che quegli artisti e quegli uomini di cultura riescano a scappare dalla morsa che li minaccia, non per piegarsi alle logiche culturali dominanti, ma per aggredirle: può accadere, ad esempio, che i principali esponenti della vita teatrale di una nazione entrino in massa in un carcere di massima sicurezza e lo trasformino, adattandovisi, in un teatro multiforme e brulicante di suoni, voci, immagini, corpi e colori.
E’ quanto, ovviamente, è accaduto nella XXV edizione del Festival Volterra Teatro, che, per la prima volta, si è svolto interamente all’interno delle mura del carcere mediceo: oltre allo spettacolo della Compagnia della Fortezza, decine di artisti di fama internazionale hanno occupato gli spazi della Rocca e li hanno trasformati negli luoghi deputati delle proprie performance.
Tutto ciò si inserisce nel rivoluzionario progetto di Armando Punzo “Per un teatro stabile in carcere”, che mira a trasformare il luogo di pena in un teatro vero e proprio, un terreno in cui il microcosmo carcerario e il macrocosmo della città libera possano interagire, il tutto reggendosi sul lavoro costante (che dura da 23 anni) della compagnia di attori-detenuti e del suo regista.
Dal 28 al 30 luglio, dunque, sono stati numerosi i protagonisti di questa “presa della Bastiglia”: dal Teatro delle Albe a Roberto Latini, da Fanny & Alexander a Rezza/Mastrella, solo per citarne alcuni.
Abbiamo seguito la giornata del 28 luglio, assistendo a Orazione Intima di Isole Comprese Teatro e alla presentazione dei lavori (ancora in short format) dei protagonisti dell’ultima edizione del prestigioso Premio Scenario.
Orazione intima
Le parole dell’internato Antonin Artaud recitate e fatte risuonare dentro le mura di un carcere del ‘300. Bastano questi due elementi ad accendere suggestioni e curiosità, se non altro per il parallelismo fra il manicomio in cui Artaud è rimasto per ben nove anni e lo spazio claustrofobico del Teatro Renzo Graziani (il vero teatrino del carcere, in verità) in cui si svolge Orazione Intima della compagnia Isole Comprese Teatro.
Suggestioni, dunque: riecheggia nella memoria la voce ruggente e stralunata dello stesso Artaud nell’ormai celebre trasmissione radiofonica“Per farla finita con il giudizio di Dio”, e fiammeggiano nel ricordo la violenza delle invocazioni, delle visioni, delle grida e dei messaggi che egli non ha mai smesso di produrre e lanciare verso l’eternità.
Che sorpresa, dunque, trovarsi di fronte un ragazzo esile (Gillo Conti Bernini), i riccioli scuri cascanti sulle guance, che, jeans e maglietta, ci aspetta nella sua tana, seduto composto come sul banco di una chiesa e avvolto da una nuvola di palloncini rossi. E’ una presenza ambigua e sfuggente quella di Gillo, che dà forma e significato all’intera rappresentazione grazie all’ambivalenza del proprio stare in scena. Si tratta di una figura eterea e carnale al contempo, angelica e luciferina, ebete e geniale, che si fa attraversare dalle parole di Artaud restituendocele ora come un magma sonoro dal sapore comicamente assurdo, ora come la confessione e il grido di dolore di chi, con la lucidità del folle, riconosce che “Ogni sogno è un pezzo di dolore che noi strappiamo ad altri esseri”.
Ogni gesto di questo attore-analfabeta, di questo genio-bambino si manifesta come un oggetto dalla forma chiara e definita che però lascia intravedere ombre deformate e diaboliche: a questa ambivalenza rimandano le invettive contro la storia, la cultura e la società borghesi pronunciate però come se fossero uno scioglilingua tutto pause comiche e tirate impronunciabili; così come ci appare ambiguo, fra gli altri, il gesto di far volare gaiamente in aria i palloncini rosso acceso, salvo poi prenderne uno fra le mani e premere fino a farlo scoppiare, quasi fosse una testa da cui dover far uscire pensieri sbagliati.
Ma forse sono le metamorfosi del volto del protagonista a lasciarci il ricordo più toccante: gli occhi dolci e profondi fissi oltre le teste degli spettatori, il sorriso sbrecciato e vagamente inebetito, come un bambino che ripeta a memoria una poesia o un filastrocca, e, più di tutto, una viso teso e immobile che, avvolto dal buio e poggiando sul busto stretto in una bianca camicia di forza, vibra senza indugio di parole dense e impietose che, inesorabili, gridano “Vivere è superare se stessi, mentre l’uomo non sa far altro che lasciarsi andare”.
Generazione Scenario
Nel vedere riuniti i migliori quattro lavori dell’ultima edizione del Premio Scenario, ci interessava il fatto di poter gettare uno sguardo su diverse personalità artistiche che cercano una strada per affermarsi, tentando di elaborare una drammaturgia, un universo figurativo e, in generale, un linguaggio proprio, unico e non assimilabile ad altre esperienze.
Tra queste opere, tutte presentate nella versione ridotta della durata di venti minuti, alcune hanno avuto la forza di lasciarci ricordi e immagini dotati di una certa suggestione (di frammenti e impressioni si tratta, anche vista la brevità delle singole performance), mentre altre ci sono sembrate meno potenti, forse perché ancora troppo legate a scelte drammaturgiche e stilistiche che davano la sensazione del “già visto” e, irrimediabilmente, del “già detto”. Non ci ha troppo sorpreso, infatti, né il collage (visivo e verbale) di canzoni, citazioni e oggetti-simbolo degli anni Novanta di L’Italia è il Paese che amo (Compagnia ReSpirale Teatro), né la sottile ironia alla visione contemporanea della bellezza (tutta corpi in forma perfetta, occhiali da sole, shorts e magliette dai colori fluo) portata in scena da Spic & Span (foscarin:nardin:dagostin), in cui comunque spicca il nitore e la perfezione della danza, ginnica, piena di gesti stereotipati e spesso all’unisono, dei tre protagonisti.
Inquietante, crudele e claustrofobico è stato invece InFactory (Matteo Latino) che, pur con ricorso forse ridondante a veri e propri “compiti” scenici eseguiti dai due protagonisti (l’accensione/spegnimento di luci al neon portate da una parte all’altra della scena, il play/pause dell’ipod da cui proviene la musica o l’infilare/sfilare magliette con scritte ironiche e provocatorie), tuttavia riesce, soprattutto grazie al delirante testo poetico che puntella l’azione, a fornire un’immagine cruda e angosciosa di un’intera generazione. Matteo Latino e Fortunato Leccese, trentenni prestanti e sfacciati, incarnano l’immagine di giovani uomini sempre più ridotti allo stato animale, laddove per bestialità non è da intendere la tendenza a dar libero sfogo ai propri impulsi e desideri primordiali, bensì una condizione di reclusione coatta, di carnalità inconsapevole, di castrazione e, in senso lato, di impossibilità di agire/re-agire, riuscendo a camminare sulle proprie gambe.
Ma a rapirci, lasciandoci il ricordo più teneramente poetico, è senza dubbio il duetto di Due Passi sono con Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi. Una coppia di anti-eroi, Romeo e Giulietta in miniatura, i due personaggi (Pè e Cri) compiono davanti ai nostri occhi un cammino di dimensioni colossali: dei due passi del titolo si tratta, certo, ma servono a condurli dal microcosmo ipocondriaco in cui vivono (due sedie di legno, pastiglie ipervitaminiche che sostituiscono i pasti e centinaia di guanti in lattice per evitare qualsiasi contatto esterno) fino al mondo reale, in cui è possibile pensare di sposarsi, avere dei figli e un cane, e in cui, più di tutto, si può riuscire ad accettare anche la presenza del male, del pericolo e dolore, dal quale, comunque, non è mai possibile proteggersi del tutto.
Ecco allora che, dopo un iperbolico e paradossale scambio di battute (il tutto in un vernacolo impastato di dialetto siciliano dalla comicità irresistibile) sui rischi igienico-sanitari connessi a qualsiasi forma di attività interumana (dall’abbracciarsi al fare dei figli), i due mini-eroi, le gambe molli, gli occhiali calati sul naso, e i guanti di lattice ancora indosso, riescono, stupiti e ammirati, a fare il loro ingresso nel mondo esterno. Da lì al matrimonio il passo è breve: vestizione in scena per entrambi, papillon per lui e una nuvola di tulle per il velo di lei, i due assumono presto le sembianze di quei pupazzetti che si usava mettere sulle torte nuziali qualche anno fa, il tutto mentre si scambiano una promessa tanto sincera quanto difficile: “cercherò di amarti di un amore particolare”.
Giulia Taddeo
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