lunedì 1 agosto 2011

Scacchi, politica e pazzia: Mercuzio non vuole morire

regia Armando Punzo
con i detenuti attori della Compagnia della Fortezza


Per entrare nel carcere mediceo di Volterra bisogna percorrere un ripido selciato che va da Porta Selci su fino al maestoso e pesante portone ligneo della Rocca.
Proprio lì, stagliati contro la massa imponente dell’edificio, vediamo sei bambini vestiti di bianco: sono loro che, suonando dolci melodie con un violino, un sassofono o un piccolo pianoforte e accennando timidi passi di danza, accolgono il pubblico di Mercuzio non vuole morire, ultimo spettacolo della compagnia di attori-detenuti diretta da Armando Punzo. Ma ecco che ad ascoltare il sestetto in miniatura si aggiunge, mentre accosta alla guancia un orecchio gigante, una stralunata figura di adulto, la giacca, il grosso cilindro e il volto completamente ricoperti da una scacchiera bianca e nera.


(foto di Massimo Marino)
Ancora non lo sappiamo, ma questa è solo la prima di una serie di commoventi immagini a cui assisteremo durante lo spettacolo della Compagnia della Fortezza.
Ma, più di tutto, ancora non ci rendiamo pienamente conto del fatto che quel portone, quei bambini e quegli scacchi sono l’allegoria di una partita aperta tra il dentro, quello del carcere e del teatro, e il fuori, quello della piazza, della città, della società.
E’ nella logica di questa partita che viene allo scoperto l’assoluta coerenza dell’intero progetto di Armando Punzo, artista magnetico e rigoroso, che catalizza attorno a sé, fondendoli in un legame chimico insolubile, gli aspetti più dichiaratamente a-sociali e a-politici del proprio teatro con motivazioni e scelte squisitamente artistiche.

(foto di Massimo Marino)

Impossibile, e insensato, scindere questi due aspetti, l’uno acquistando senso e valore grazie alla coraggiosa presenza dell’altro: ecco allora che la volontà di trasformare Mercuzio non vuole morire in un evento straordinario e inaudito che esca dal carcere e coinvolga, con migliaia di partecipanti, l’intera città di Volterra è il corrispettivo perfetto della rilettura che la Compagnia della Fortezza offre a proposito del Mercuzio shakespeariano.
Mercuzio, emblema della poesia, dell’arte, della cultura è colui che muore troppo presto, sacrificato dallo stesso Bardo per riuscire a raccontare una realtà fatta di meccanismi e costruzioni sociali capaci di stritolare tutto, persino l’amore.

(foto di Stefano Vaja)
Ma se Mercuzio, l’ultimo poeta, non morisse; se il sogno, la fantasia e la speranza che egli omaggia così mirabilmente nella celebre tirata sulla regina Mab non si spegnessero, cosa accadrebbe?
L’arte si farebbe realtà, il carcere diventerebbe teatro, il dentro esploderebbe nel fuori. Forse.
Ed è nell’oscillare fra dentro e fuori che prende forma la visione di Mercuzio non vuole morire. Eravamo rimasti al portone, ai bambini, agli scacchi.

(foto di Massimo Marino)
Un fiume di spettatori entra nel carcere, passa controlli e cancelli finché si arriva alla piazza, le sbarre lungo il perimetro e mazzi di rose rosse deposti a terra. E’ in questa Verona/Volterra (pannelli con stampe della cittadina toscana vengono fatti rotolare lentamente sullo sfondo) che Punzo, gridando instancabilmente frasi dal sapore di sentenze (su tutte “Io sono l’ultimo poeta!”), duella con un personaggio (Tebaldo) dal trucco marcato e dal ghigno grottesco. La piazza si riempie delle urla dei due attori, delle stoccate secche e metalliche delle spade e della musica che cresce fino a deflagrare nelle note di Romeo e Giulietta di Prokofiev. Ma non solo. Fa il suo ingresso, dal lato e quasi in sordina, la compagnia al completo, immagine spettrale e minacciosa: compatti come un plotone gli attori incedono in maniera inesorabilmente lenta, le facce grigie pietrificate in smorfie senza tempo e i costumi dipinti in modo da raffigurare diversi edifici cittadini. Eccola, la città: architettura che si è fatta corpo, penetrando fin nel profondo dei propri abitanti, mostrificandoli.
Ma non ha il tempo, questa città antropomorfa, di travolgere Mercuzio. Tutti dentro. Tutti nel labirinto del carcere, tra l’odore di colla e colori a tempera delle pareti e le raffiche di parole che feriscono l’aria da ogni parte, gridate, declamate, ruggite, sospirate.
Gli attori si dividono fra stanzette e corridoi dal soffitto basso, si muovono e sgomitano fra la folla degli spettatori, mentre frammenti della tragedia risuonano di bocca in bocca fino a quando, in filodiffusione, sono i versi recitati da Punzo a far vibrare l’aria di una voce unica e perentoria che ci riconduce nuovamente sul piazzale per l’ultima suggestione.

(foto di Massimo Marino)
Niente parole per questo finale: solo Punzo che, un coltello conficcato nella schiena e un paio di scarponi neri da clown, si aggira nella piazza, guitto fantasma dal volto estatico, fino ad accasciarsi al suolo, mentre sullo sfondo incombe, felino, l’uomo-scacchiera seduto sul suo sgabellino bianco-nero.
Ma non si tratta di una presenza solitaria: ecco Giulietta, fanciulla misteriosa con una gigantesca rosa in mano e il volto trasognato; ed ecco l’altrettanto enigmatico uomo con una valigia piena di storie e dolori da raccontare.
Ma, soprattutto, tante sagome di cartone in bianco e nero che raffigurano altrettanti bambini, ognuno con un palloncino colorato, pronti a spiccare il volo.
(foto di Massimo Marino)

Giulia Taddeo

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