venerdì 28 febbraio 2014

Il Senso comune della compagnia Teatro dei Venti

Buio, o quasi, all’inizio: il buio dei sogni o dei ricordi.
Sul palco una flebile luce permette a malapena di distinguere l’allestimento della scena. Balzano subito all’occhio una quantità notevole di taniche, per lo più bianche, più o meno disposte a delimitare a mo’ di quadrato la scena. Il luccicore latteo del materiale plastico evoca uno degli elementi che per primi è “senso comune” a Napoli: i rifiuti. 


Taniche-rifiuti in cui i tre attori sguazzeranno, la donna facendole cadere e cercando convulsamente forse la sua dose, l’uomo rotolandosi su di esse. Oltre le taniche, delle tende trasparenti contribuiscono a fornire un’atmosfera onirica e spettrale all’allestimento, soprattutto quando le luci vengono sparaflashate come in una discoteca, accompagnate da una musica rimbombante: uno dei momenti centrali della performance e più caotici, in cui il magma dei sogni o ricordi raggiunge il suo culmine.
Sì, ricordi, perché in effetti lo spettacolo vede come introduzione il racconto in prima persona del regista, Stefano Tè: dopo essere entrato in scena nella semioscurità ed essersi seduto, ricorda un fatto di camorra vissuto sulla propria pelle, uno shock adolescenziale causa scatenante di quest’allestimento. «Ho raccontato questa storia che non vedrete per dare il motivo di ciò che vedrete». E dopo questa frase, conclusiva del racconto, lo spettacolo può veramente iniziare.


Un uomo e una donna, poi un altro uomo entrano in scena. Non sembrano avere nessuna relazione tra loro, anche se spesso le loro azioni, che si strutturano più per affinità, associazioni, analogie, che per un vero e proprio filo logico, sono interconnesse provocando suggestivi effetti di risonanza. Come quando l’uomo beve da una bottiglia e risputa il liquido in un contenitore. Nello stesso momento la donna s’immerge la testa in una bacinella, come per auto-affogarsi. Il senso comune ostruisce la gola, la riempie, fino a far vomitare o annegare. Un senso comune elencato come una formula rituale, una preghiera blasfema nei confronti di Napoli («Napoli bocchinara»), di tutto ciò che è Napoli. Preghiera, perché subito prima viene evocata l’importanza della religione per il mondo partenopeo dall’invocazione della donna a Maria, nel buio imperante, mentre sullo sfondo un’icona della Madonna proietta un’avvolgente luce rossa.
Un senso comune deforme, alienante, come viene subito tratteggiato dalla danza oscena di smorfie bestiali e gesti convulsi dell’uomo, in piedi sulla sedia a prendersi tutta la poca luce della scena, mentre la donna di casa pulisce. Alieno diventa l’uomo che indossa un casco nero, da killer camorrista, che pronunciando frasi in un napoletano ostico si sbatte violentemente la pistola sul casco, mentre una musica inquietante e il ritmo accelerato del tambureggiare del terzo attore aumentano la sensazione di angoscia.


Un senso comune falsamente confortante e kitsch, ostentato dalla canzone neomelodica mimata dalla donna, vestita ora di nero, che sventola un ventaglio.
L’ipocrisia della tradizione viene svelata: emblematico il monologo sul rituale sacro del caffè, quando l’attore mostra però un rituale ben diverso, prendendo una siringa in mano e tagliando la droga.
Le azioni e le potenti immagini proposte da uno sguardo visionario ma lucido destrutturano completamente il senso comune napoletano, mettendone a nudo il sentimento di angoscia e oppressione subiti, che aggrediscono anche lo spettatore. La ferita è lì, aperta, come ricordano i rumori dei bambini che giocano e schiamazzano a scuola: rumori che dovrebbero essere gioiosi, ma che accostati alla routine sconfortante e grottesca dei tre attori risultano tanto più inquietanti. E il teatro? No, niente catarsi: viene anzi disprezzato dall’attore nel finale, evocando probabilmente le parole di un prigioniero in un momento di disillusione nei confronti dell’operato sociale della compagnia del Teatro dei Venti in carcere.
Resta dunque un’esperienza intensa, suggestiva, intima, al di fuori di ogni senso comune.

Visto al Teatro dei Segni di Modena il 27 febbraio 2014

Senso Comune
Regia Stefano Tè
Drammaturgia Giulio Costa e Stefano Tè
Musiche Matteo Valenzi e Igino L. Caselgrandi
Con Igino L. Caselgrandi, Francesca Figini, Antonio Santangelo, Stefano Tè
Voce fuori campo Ernesto Mahieux 

Fabio Raffo

giovedì 27 febbraio 2014

Italiani Cincali: la migrazione in Belgio prende il nome di Mario Perrotta

Squinzano, Brindisi, Ostuni, Monopoli…
Il treno ci porta indietro nella memoria di sessant’anni fa: un’Italia martoriata dalla guerra rincorre uno spiraglio di luce, trovato per paradosso nella fuliggine delle miniere di carbone in Belgio. La storia degli immigrati pugliesi diretti oltre il confine in cerca di fortuna e destinati a lavorare a fianco alla morte fino alla pensione… di invalidità perché ammalati di silicosi.


L’attore leccese Mario Perrotta indaga, intervista, scava nel proprio passato da figlio di emigrato per tirare le somme in una storia di discriminazioni e di soprusi, nata come speranza di riscatto di un popolo sul lastrico del  secondo dopoguerra. I cunicoli asfissianti dei cantieri, le temperature esorbitanti, il buio che offuscava anche i pensieri pendono dalle labbra dell’attore che usa solo una sedia in scena per raccontare e poi naturalmente gli sguardi, i gesti e le tonalità della voce modulate per i personaggi interpretati. Sì, perché in scena ci sono il piccolo Mario, che racconta i momenti autobiografici e di cronaca, e  Pinuccio il postino, il testimone oculare dell’intera vicenda.

Cerignola, Foggia, Vasto, Pescara, S. Benedetto del Tronto, Ancona, Fano.
Un lungo dialogo di memorie intrapreso con ‘a Signuria vostra, visto dagli occhi di chi l’emigrazione l’ha vista scritta sulle lettere spedite dai mariti lontani, recapitate alle mogli rimaste sole al paese. L’unico uomo capace di scrivere, leggere e fare di conto racconta la storia della povera Puglia, dall’arrivo dei Longhibardi contrastati dai Bizantini, alle invasioni di Svevi, Normanni, Turchi, Saracini, Angioini, Aragonesi e Barboni di Napoli  «che non trovarono più niente, neanche gli occhi per piangere».
Il Postino è la memoria del paese, conosce le storie di tutti gli emigrati del posto. Legge, immagina, racconta alle famiglie di quanto sia bella la vita fuori dall’Italì: Brussèl, Stuttegarte, Zuricche e Lièsce, complice di mariti che nascondono alla famiglia l’orrido della vita da minatore, in cambio di stipendi, sacchetti di carbone e silicosi.

Rimini, Cesena, Forlì, Faenza, Imola, Bologna.
Promesse di lavoro in Belgio, buon lavoro retribuito, la possibilità di trasferimento dell’intera famiglia sembrano essere il miracolo, la salvezza per questo popolo. Cinquantamila operai nazionali sotto i 35 anni di età, con l’ignoranza in spalla e armati di buona salute, non hanno esitato a partire. Ovviamente in condizioni disagiate: viaggi di 50 ore, alloggi nelle baracche dei campi di concentramento, imprigionati e accusati di rescissione di contratto se si rifiutavano di non scendere in miniera. In cambio della manovalanza prestata al Belgio, l’Italia riceveva 200 Kg di carbone al giorno per ogni minatore italiano: un ottimo affare per la produzione di energia che andava appunto a carbone.

Modena, Reggio Emilia, Parma, Fidenza.
Perrotta porta in scena l’inferno con il sudore che trasuda dai ricordi e dalla sua fronte. Sguardo diretto al pubblico che immedesimato si fa piccolo per entrare anche lui nelle strettoie di fuoco delle miniere dove il gas grisù penetra i pori della pelle e dei  polmoni. Scendendo per sette-ottocento metri sotto terra, i racconti indossati al posto dei cappotti ci stanno stretti e sporchi di nero, ricordano le nostre radici, che non sono lontane da quelle dei minatori lissù: Italiani cincali ci chiamavano, ovvero Italiani zingari che rubano lavoro ai Belgìc disoccupati. 


Piacenza, Lodi, Milano Garibaldi.
Le storie tragiche sono decorate da divertenti aneddoti del postino che, oltre a recapitare lettere, deve far compagnia e “dare conforto” alle vedove bianche del paese, sole e senza marito. L’uomo fa sani gesti di altruismo verso le  donne in preda a bollori ormonali: dunque si ride un po’.

Charleroi, 1956: a Marcinelle esplode la miniera di carbone per una serie di disgraziate coincidenze e assenza di norme di sicurezza sul posto di lavoro; 262 morti, su 274 lavoratori presenti.
San Lazzaro 2013: gli applausi vanno a Perrotta, a tutti gli ex lavoratori attaccati a un respiratore per sopravvivere alla silicosi, e a tutti i morti riportati in vita dai testi di Mario Perrotta e Nicola Bonazzi.
Applausi.

Visto all’Itc Teatro di San Lazzaro il 22 febbraio 2014

Italiani Cìncali! 
Parte prima: minatori in Belgio
di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta 
interpretato e diretto da Mario Perrotta 

dedicato a Lucio Parrotto

Angela Sciavilla

mercoledì 26 febbraio 2014

Riportare al cuore: il ricordo e il ritorno al centro del secondo lavoro di Mario Perrotta sull’emigrazione



Avete mai chiesto a un vecchio di raccontarvi la sua storia? Riusciti a vincere la riottosità e il senso pudico, chissà quante volte la storia narrata si perdeva oltre i confini personali, e la sua storia diventava la vostra, la nostra storia… La Turnàta – Italiani cìncali parte seconda ci porta a confrontarci con le sinapsi scollegate di una cultura ipocrita, la nostra, che dopo anni di lotte per il riconoscimento di diritti umani insindacabili richiede e ottiene l’espressione da parte del popolo delle proprie chiusure ideologiche sull’immigrazione (è tragicamente illuminante il referendum che due settimane fa ha riportato la memoria sulle viziosità dell’idealismo nazionalistico europeo). Protagonista è l’emigrazione, ma non solo: protagonista è uno stato europeo che sfrutta manodopera proveniente da un sud che oltre ad essere povero è dimenticato da Dio e dalla Patria, imponendo agli immigrati condizioni dittatoriali. Protagonista è un bambino di 14 anni che ha passato gli ultimi dieci in un paese straniero, chiuso in casa a sognare la luna, vittima di un ergastolo perché colpevole di essere figlio di immigrati e quindi futuro ruba-lavoro. Come in tutte le storie, i protagonisti hanno un nome: il paese cattivo è la Svizzera, il sud del sud è la Puglia e il bambino si chiama Antonio detto Nino, ma questo perché questa storia nasce da un’esigenza personale, da un uomo alla ricerca della sua identità cha ha riallacciato il suo cammino con il suo passato e ha trovato sulla sua strada testimonianze di uomini partiti, schiavizzati, incattiviti da un mondo di patruni e garzuni. Quest’uomo risponde al nome di Mario Perrotta; ed è lo stesso Perrotta, nell’incontro post-spettacolo, a ricordare come quel bambino che ieri si chiamava Nino, oggi si può chiamare Assef e il paese disumano che sfrutta emigrati per i lavori che i suoi cittadini non si abbassano a fare può tranquillamente prendere il nome di Italia.


Seduto, con una gestualità e uno stile narrativo meravigliosamente meridionale, Perrotta dà corpo a un testo dove le trovate narrative riescono a guidare il pubblico dal riso più genuino al silenzio della meditazione (e il merito va riconosciuto anche all’altro autore, Nicola Bonazzi); un pubblico che non solo riempie la platea dell’ItcTeatro ma invade anche il palco, circonda la voce di questo attore-cantore che riscuote le ceneri del nostro essere: in un’ora e mezza di spettacolo scopriamo di essere figli di quelle sofferenze, di quegli uomini che hanno permesso all’Italia di rialzarsi mettendo sotto i piedi la loro dignità di lavoratori, e che nessuno lo vuole ricordare, nemmeno i protagonisti. Perrotta riparte con la seconda tappa del progetto Cìncali, questa volta per raccontarci il ritorno e i differenti tipi di ritorno: nna enùta è solo nna enùta, mentre la turnàta è per sempre… una venuta è il tempo di mettere piede sulla tua terra, e respirare la tua aria. Una venuta è quella che negli anni sessanta costringeva i lavoratori stagionali a tornare a casa, dopo undici mesi di lavoro in Svizzera, e sperare nella chiamata del padrone, nella conquista del permesso da lavoratore annuale, nella possibilità di ripartire ma con la tua famiglia e di vivere insieme sotto lo stesso tetto, liberi. Il ritorno, è un’altra cosa: è quando arrivi perché non devi partire più. Questa è la storia di una turnàta raccontata da Nino all’indomani della morte del nonno, l’unica voce che regalava sapere, ricordi, coraggio al bambino costretto a vivere nell’oscurità, nella paura. Sogna la luna, il piccolo Nino, perché il nonno gli ha confidato il segreto della vita dopo la morte: il corpo rimane, noi ce ne andiamo e diventiamo altro. In quella sera del ’69, il nonno si abbandona al sonno eterno e si unisce alla cordata Armstronge compagni, alla conquista italiana della luna. Sogna la sua terra, Nino, perché il nonno gli ha raccontato che è la terra più bella che ci sia, e sogna di ritrovare, nascosto in quella terra, il segreto che ha spinto il nonno a partire, a sradicarsi con il rischio di non tornare più. Pensa al nonno, Nino, quando chiuso nel bagagliaio oltrepassa il confine e gli dice di non aver paura, quando sarà chiuso nella sua bara, che basta ascoltare il battito del cuore e tutto passa. Vive in un mondo altro, Nino: in un mondo dove il comunismo è una squadra scarsa ma combattiva di terza categoria con una formazione internazionale dove spiccano Tito e Marx, i bambini solitari si confidano paure solo nei sogni e nei pensieri e Albano dedica le canzoni a quella terra mai conosciuta, a quella paura mai superata. Mentre il nonno parte alla conquista della luna, Nino si avventura verso un passato ascoltato ma mai vissuto. Riconquista con i suoi piedi la sua terra e lì riporta le sue radici. 


È lui il depositario del passaggio, della circolarità del tempo, della giusta fine: scavando alla ricerca del segreto promesso dal nonno, ai piedi degli ulivi colmi di frutti, Nino trova un foglio di carta con sopra scritta la promessa che quella terra diventerà casa per i suoi figli e i figli dei suoi figli. Il viaggio dell’eroe si conclude con la conquista del tesoro e dell’identità: nella sua terra il piccolo Nino costruisce la sacra dimora dei suoi ricordi, si riallaccia alle volontà dei padri e con le sue mani riscatta il loro dolore. Ma siamo pronti a scommettere che anche in questo caso la storia si presti a sostituzioni di personaggio, e al posto del quattordicenne che torna in un paese sconosciuto possiamo immaginarci un uomo sulla trentina che scava nel suo passato dimenticato, e ce lo regala sulle tavole di un palcoscenico ancora, dopo dieci anni, con le lacrime agli occhi. Perché anche Mario Perrotta, come Nino, ha avuto paura del buio e probabilmente anche a lui, per salvarsi, è stato necessario ricordare.


La Turnàta – Italiani Cìncali parte seconda
di Nicola Bonazzi e Mario Perrotta
diretto e interpretato da Mario Perrotta

Visto all’ITC Teatro di San Lazzaro il 23 febbraio 2014

 


Elvira Scorza

lunedì 24 febbraio 2014

Diario a fumetti di un affondamento: presentazioni con autointervista



Lorenzo Cimmino, ideatore del progetto editoriale Il Girovago presenta la nuova creatura pubblicata, nata dalla sinergia di Expris Comics con la compagnia Cantieri Meticci, in una insolita forma: l'autointervista.

Expris Comics
Come il Titanic – Diario a fumetti di un affondamento
Prezzo di copertina: €12,00
Formato: cm 17 x 24    96pp.
ISBN: 9788889262726

Quattro fumettisti entrano nella sala prove di un teatro. Lì incontrano un regista e quaranta attori provenienti da quattordici paesi diversi: stanno preparando uno spettacolo sulla crisi che affligge i nostri tempi, lavorano sulla tragedia del Titanic come metafora di partenza.
Si siedono in un angolo e si mettono a disegnare.
Dopo mesi di cronache settimanali, pubblicate on line sul blog del Girovago, gli Expris Comics danno alla luce tre storie tra fumetto e illustrazione che parlano di zattere, affondamenti, sommersi e salvati, rubando qua e là immagini, storie e volti agli interpreti dello spettacolo.
Gli Expris Comics coinvolti sono: Innai Marini, Federo Trofo, Antonella Selva e Francesco Lopez Visicchio.

Domanda: “Come nasce l'idea del libro?”
Risposta: “Prima vorrei fare una premessa: io, prima ancora che editore e responsabile di collana, nasco come attore presso l'ITC Teatro di San Lazzaro, luogo tanto piccolo quanto ricco di progetti artistici a carattere civile e sociale. Proprio in questa stessa struttura è nata la Compagnia dei Rifugiati - Cantieri Meticci, che si è staccata dalla "casa madre" per diventare creatura autonoma e di cui io ora faccio parte.
Il libro nasce dopo l'esperienza Diari da uno spettacolo, ovvero la scrittura delle cronache settimanali sul blog del Girovago, che ho pubblicato e messo on line tra febbraio e giugno 2013. L'idea era quella di raccontare tramite brevi testi, video-interviste, fotografie e disegni, le tematiche dello spettacolo interattivo Il Violino del Titanic - ovvero non c'è mai posto sulle scialuppe per tutti e le suggestioni date dal gruppo interculturale Compagnia dei Rifugiati - Cantieri Meticci, che lo avrebbe messo in scena. Un gruppo di  lavoro che comprende oltre quaranta attori provenienti da Afghanistan, Belgio, Camerun, Cina, Costa d’Avorio, Ghana, Iran, Italia, Marocco, Nigeria, Pakistan, Repubblica Democratica del Congo, Russia, Sierra Leone, Siria, Somalia.
Nella scheda tecnica della compagnia si legge che, ispirandosi al capolavoro La fine del Titanic di H. M. Enzensberger, fa salire gli spettatori a bordo del celebre transatlantico per vivere da dentro le azioni, le dinamiche, le domande scaturite dall’agonia e dall’affondamento di un mondo. Ma chi si salva e chi è sommerso? A quale prezzo ci si salva? Qual è l’iceberg che ha colpito il nostro mondo? Quali innovazioni possono nascere dall’affondamento? Quale contributo possono dare i nuovi cittadini nell’impedire il naufragio? Quale ruolo possono giocare l’arte e la cultura in questi nostri tempi di crisi? [...] L’affondamento del Titanic come indagine sulla crisi, [...] crisi non solo economica ma anche culturale e sociale che il nostro mondo sta attraversando.

Il punto zero della pubblicazione parte proprio da qui, quando ho invitato gli Expris Comics alle prove per lasciarsi ispirare da tanti spunti, suggestioni e punti di vista così diversi.


D: “Come si è svolto il lavoro congiunto tra il gruppo Expris Comics e la Compagnia Cantieri Meticci?”
R: “Gli Expris Comics hanno passato mesi assistendo alle prove, seduti per terra, in un angolo, con blocchi di appunti e matite. Ogni settimana usciva un articolo nei Diari da uno Spettacolo, che veniva visto o commentato dai ragazzi della compagnia. L'incontro, devo dire, è stato formidabile, ben al di sopra delle mie aspettative. Lo scambio e l'amicizia nati in questo incontro tra autori e attori ha fatto sì che il progetto assumesse un'importanza elevata per tutti noi. Dopo il debutto dello spettacolo in forma di studio nel giugno scorso, mi sono incontrato con gli Expris e abbiamo deciso che si doveva andare avanti. Abbiamo capito insieme le tematiche che li avevano maggiormente colpiti e da qui è cominciato il lavoro di stesura dei soggetti, poi gli storyboard, le tavole, ecc. Tutti i personaggi presenti nel libro hanno le fattezze degli attori della compagnia che, in alcuni casi, ci hanno regalato addirittura le loro storie (Amin e Giovanni nella storia La Zattera di Antonella Selva). 
Lo spettacolo Il Violino del Titanic avrà il suo debutto finale a giugno 2014”.

D: “Di cosa si occupa precisamente la collana Il Girovago?”
R: “Il Girovago (Ed. Nuova S1, Bologna) è un progetto editoriale varato ufficialmente nel giugno 2012. Al momento è composto da tre pubblicazioni cartacee – un diario di viaggio e due fumetti (http://www.ilgirovago.com/catalogo/) – e un blog. L'idea è quella di utilizzare il viaggio, o meglio gli occhi del viaggiatore, come metro di giudizio per analizzare il mondo. Il viaggio come incontro e scambio di punti di vista. Il viaggio come messa in discussione dei propri schemi mentali che rischiano altrimenti di portarci all'impoverimento e alla crisi.

Per questo motivo, all'interno del contenitore Girovago, convivono perfettamente insieme il punto di vista di italiani che vivono all'estero e quello di stranieri che si trovano in Italia. Per questo motivo non uso un unico linguaggio per tentare di indagare tematiche così vaste: ecco quindi fumetti, diari di viaggio, interviste, ecc. Navigando a vista, alla continua ricerca di nuovi confronti, stimoli e chiavi di lettura del mondo in cui viviamo.


Per maggiori informazioni, visita il sito: http://www.ilgirovago.com/expris-comics-come-il-titanic/

Lorenzo Cimmino

sabato 22 febbraio 2014

Lettura di un copione che incrocia la vita: il teatro-biblioteca de Catalunya

Alzi la mano chi non ha mai annusato l'odore di una biblioteca, o attraversato con lo sguardo i suoi corridoi costellati di scaffali e scaffali di libri, o divorato tomi di storia protetto dal silenzio del tavolo posto nell'angolo più remoto della sala: un tuffo di pura astrazione non solo nelle pagine dei libri, ma nell'osservazione di ogni più piccola minuzia che ti circonda.
Bene, le lettere che scolpiscono lo spazio bianco del foglio, che si traducono in senso, forma e perché no, che nutrono e colorano l'immaginario, esistono per i divoratori di libri o per i passanti, per gli habitué o per chi attraversa il mondo delle biblioteche solo per caso, senza il desiderio di volersi trattenere per troppo tempo. Ritroviamo queste lettere, trasportate dal vento dell'immaginazione, del desiderio di esplorare, direttamente su un tavolo di legno chiaroscuro, posto al centro della sala di una biblioteca.


Ecco il primo elemento essenziale, indispensabile, che caratterizza Quiet Volume (Il libro silenzioso), una creazione teatrale enigmatica dei registi Ant Hampton e Tim Etchells:  un tavolo che assume su di sé tutta la funzione scenica di questo “spettacolo”, ospitando la lettura di due spettatori-partecipanti che, guidati dalle istruzioni di due iPod, si immergono in un viaggio tra le parole sussurrate nelle cuffie e quelle contenute in alcuni libri, i soli elementi scenici insieme al tavolo. Si origina un cortocircuito tra l'ascolto della voce guida che legge le parole del libro e la lettura mentale dello “spett-attore”, suo tramite con il mondo di idee, ricordi, sensazioni, immagini sedimentate nello strato più profondo dell'io.
Chiamato ad unire gli elementi di una partitura drammaturgica frastagliata, il partecipante diviene unico creatore-attore del momento scenico. I due lettori-partecipanti si trovano a “vivere” dunque non tanto uno spettacolo, quanto piuttosto un viaggio all'interno del mondo di silenzi e sussurrii di una biblioteca.
Tutto ciò che si trova oltre e attorno al tavolo continua ad appartenere al mondo dei libri e resta perciò immerso nel suo brulichio quotidiano: chi continua a leggere, chi cerca tra gli scaffali dei libri. Sul tavolo campeggia solo una scritta: Spai riservat (Spazio riservato). Alla scoperta esclusiva dei due viaggiatori di teatro.
Nulla potrebbe essere più distante dalle consuetudini teatrali: nessuna fila per entrare, nessuna atmosfera da foyer, nessuna poltroncina rossa su cui sedersi, nessun attore da applaudire, nessun pubblico. Tuttavia, pur non essendoci tutti questi elementi, i due partecipanti percepiscono già dall'ingresso nella biblioteca di essere entrati a far parte, come ingranaggi, della macchina teatrale: lo spettatore si sente investito di una “responsabilità”.
Gli spettatori entrano due alla volta, prendendo così parte all’allestimento: la creazione teatrale viene infatti ripetuta ogni cinquanta minuti circa. Un inserviente invita a leggere un piccolo foglio con alcune istruzioni: «Leggi lentamente, non darti fretta, segui le indicazioni recitate dalla guida e quelle scritte».
Mentre i due partecipanti camminano tra i corridoi stretti della biblioteca, lo sguardo è attratto irresistibilmente dall’osservazione dei veri componenti di questo micro-mondo: chi lavora al computer, chi studia, chi legge.
Una volta arrivati nella sala deputata ad accogliere la creazione teatrale, ecco la scoperta: due sedie, un tavolo, due iPod e quattro libri sui due lati della scrivania formano, in una parola, la scena.
I due partecipanti indossano l'iPod, sedendosi, e dopo che l'inserviente attiva il dispositivo tecnologico, inizia l'attesa per la fase successiva: un tempo necessario per prendere consapevolezza della propria nuova posizione nello spazio, nonché far crescere la curiosità per quello che sta per accadere, per la forma che Quiet Volume si ritroverà ad assumere.
Una voce nelle cuffie attira l’ascolto del partecipante, sussurrando lentamente alcune parole: una sorta di guida illustra l’ambiente della sala della biblioteca, un mondo cadenzato da un proprio ritmo, da propri rituali, da un silenzio apparente, dietro il quale si cela una costellazione di rumori – i passi sul pavimento, lo sfogliare delle pagine, i colpi di tosse e i tentativi di reprimerli. La voce, in questa prima fase, non fa altro che descrivere il funzionamento interno ad un mondo. Si rivolge al partecipante definendolo impostore: attraverso la lettura dei libri egli ruba, sottrae, cela, sceglie, definisce le parole, modificando e “tradendo” dunque il senso complessivo di un'opera.


La guida invita poi lo spett-attore a prendere un libriccino rosso, vero e proprio guiòn (copione) del viaggio, e ad iniziare a leggerlo. La voce dell'iPod recita le prime parole scritte nella pagina, per poi tacere di colpo. Il partecipante continua a leggere da solo: le parole del libro completano il discorso della voce, spiegando come, con la sua scomparsa, la lettura tornerà ad essere più veloce, propria del ritmo del lettore, anche se la cadenza del sussurrio continuerà a restare nelle orecchie di chi sta leggendo.
Sfogliando via via le pagine, il lettore si imbatte in alcune di esse completamente bianche. Ecco riapparire la voce-guida che suggerisce di porre la propria mano sul foglio bianco, di osservarla e confrontare la composizione della pelle con quella della pagina.
Lo sguardo si trova poi a cadere su alcuni fogli in cui intravede nuovamente delle parole, però questa volta completamente sfuocate, e quindi illeggibili. Il senso indecifrabile delle parole viene così colmato dalla voce-guida: «E se davvero le parole venissero completamente cancellate? E se esistessero lettere e sillabe anche nei fogli bianchi, e fossimo semplicemente noi incapaci di leggerle?».
Accompagnato dalla guida nelle cuffie, il partecipante inizia a leggere la pagina di uno dei volumi riposti sul tavolo, dalla copertina verde. Ecco uno dei momenti centrali del viaggio: il partecipante viene invitato a condividere la lettura con il proprio compagno. La voce dell'iPod inizia a saltare di pagina in pagina e ognuno dei due partecipanti, alternandosi in base alle istruzioni, viene invitato ad indicare con il proprio dito, al compagno, la parola pronunciata dalla misteriosa guida.
Spesso, durante la lettura comune del libro, la voce-guida dell'iPod differisce nelle istruzioni tra i due partecipanti: quando indica una cosa ad uno, l'altro sente solo un brulichio di voci, suoni che gli impediscono di concentrarsi nella lettura del libro. Il dito del compagno che indica diventa dunque l'orecchio per chi non riesce a sentire.
I due lettori hanno a questo punto la sensazione di compiere una strana danza tra dito, occhio, orecchio ed immaginazione, dove il dito, seguendo nel suo incedere le righe del testo, diviene sia per il partecipante che compie il gesto sia per l'altro che non sente, l'indicatore del tempo: trasforma dunque il ritmo abituale di lettura di ciascun partecipante, ritardandolo ed estendendolo.


Il racconto con cui entrambi gli spett-attori si confrontano, a questo punto, parla di alcuni bambini e della loro incapacità di leggere: le voci di due scolari iniziano così ad accompagnare la lettura. Si tratta di una lettura frammentata, tipica di chi per la prima volta si confronta con l'immensità di un mondo che appare irraggiungibile per la maestosità delle parole, delle sillabe, dei suoni complicati da pronunciare.
Una volta terminata questa storia, la voce-guida cambia nuovamente: dalle cuffie si materializza un rumore intenso, simile a quello di innumerevoli pagine che sbattono l'una contro l'altra nello stesso momento, che si unisce alla voce roca di una signora anziana che a tratti biascica e fatica a comporre le parole in maniera distinta.
Torniamo al libro rosso, il guiòn principale, mentre i rumori dalle cuffie dell'iPod si fanno sempre più forti, simili a raffiche di vento che destabilizzano la concentrazione del lettore. Uno dei due partecipanti pone il copione al centro del tavolo, accanto a quello del proprio compagno: ognuno dovrà infatti continuare a leggere dalla pagina del libro dell'altro, indicando con il dito le parole. Ciò comporta un vero e proprio incrocio-incontro con il compagno: con le braccia, le dita, gli sguardi, perché diventa necessario trovare, in relazione a chi si trova di fianco, il proprio posto nello spazio, tale da permettere la lettura. Questa difficoltà nel cercare la propria postura ricorda per affinità la matassa aggrovigliata provocata da una lettura che mira a scomporre le parole.

Giunge infine il momento di togliersi le cuffie. Una fine che sembra proporre un ulteriore inizio: lo spett-attore continua a restare in ascolto delle parole che giungono dal guión. Riemersi dalla profondità della lettura, continuiamo a galleggiare in uno pseudo equilibrio, sulle onde ritmate dal mondo dei libri. Alziamo infatti lo sguardo, distogliendo l'attenzione dalle lettere e riprendendo così contatto con la sala della biblioteca: le domande iniziano a farsi strada nella mente dopo un’esperienza così intensa, e il primo impulso è quello di cercare con lo sguardo un contatto con chi, in quella biblioteca, è stato solo una presenza passiva, senza quindi potersi rendere conto del nostro “viaggio”. Ecco le ultime parole: «Chiudi il libro e vai, senza fretta, con il tuo tempo».
Riponiamo il volume nell'angolo della scrivania, ci alziamo e andiamo via. Mentre i passi tornano a calpestare il pavimento della biblioteca, l’orecchio continua a restare in ascolto e sembra quasi sentire, da quell'illusoria quanto reale finestra di lettere e parole, il rumore delle pagine che si strofinano l'una contro l'altra. Per il lettore-attore, per il disegnatore di immaginari, si sta chiudendo la porta di una galassia eterea ma al contempo visibile e tangibile.

Quiet Volume squarcia due mondi, quello delle biblioteche e quello dei teatri: rappresenta così il tentativo, per ognuno dei due universi, di scoprire e scoprirsi tramite l’altro. L’allestimento propone un viaggio-esperienza compiuto da ciascun partecipante tramite un mezzo tecnologico: l’idea di utilizzare l’iPod con relativa pseudo guida, come componente drammaturgica della creazione, si rivela geniale.
Una guida super partes che, in sinergia al copione scritto, ai brani dei libri selezionati di volta in volta, alle azioni dei due spett-attori, segna il ritmo: l'avanzare nella lettura, il ritornare indietro nel tempo quando si tratta di evocare i ricordi, l'incedere quando invece viene alimentata l'immaginazione.
Da elementi quali la voce dell'iPod, le parole dei libri, le immagini proposte di volta in volta al partecipante, ne fuoriesce la composizione di una drammaturgia multiforme.

Un punto cardine della creazione consiste senz’altro nell'aver trasformato il momento scenico in un micro-mondo che può definirsi nei confini di un tavolo con alcuni libri, senza necessità di un'articolazione scenografica onnipotente. Uno sguardo illuminante inserisce la rappresentazione all'interno del suo mondo originario dei libri, come se da esso, dall'immergersi nelle profondità della lettura, fosse possibile scoprire nuove vie, nuovi punti di contatto, nuovi modi di potersi guardare ed indagare reciprocamente. Uno sguardo minuzioso e attento, che, come una lente d'ingrandimento, un cannocchiale microscopico, riesce a svelare le mille sfaccettature delle pagine di questo corpo, dopo averne analizzato le molecole infinitamente piccole.
Ma è necessario sottolineare il secondo elemento imprescindibile di quest’allestimento: la simultaneità dell'occorrere del fatto teatrale con la normale attività di una biblioteca nel suo via vai, come luogo abituale di studio e di lettura. Al tempo dell’evento spettacolare si affianca dunque costantemente il tempo della sala di lettura.


Si origina inoltre un rapporto innovativo tra il corpo del partecipante, il dispositivo tecnologico e i diversi libri con cui lo spett-attore è chiamato a confrontarsi. Con i gesti, i sospiri, gli sguardi, i partecipanti divengono traduttori ed interpreti della miriade di segni che si celano sia all'interno del guión, sia al contempo nel mondo con il quale essi si stanno relazionando.
Lo sguardo rivoluzionario, dei due registi  sconvolge dunque anche la percezione di chi si trova immerso in Quiet Volume. Il suo non è più corpo agito ma diventa attore, in quanto si relaziona con la tessitura drammaturgica e registica, ne traduce i messaggi, ne compie le azioni. Il limite dell'osservazione viene oltrepassato per il fine rischioso di connotare di altre sfumature e di significati nuovi “l'agire”.
La strada intrapresa dai registi Ant Hampton e Tim Ecthells si dirige verso una direzione teatrale lungimirante, che dimostra,  cara a cara (faccia a faccia), cosa significhi non solo avanzare nella miarda (nello sguardo), ma oltrepassare le sue stesse barriere.
Alle volte, laddove le porte di un mondo, anche piccolo, paiono essere chiuse ermeticamente, si estendono oltre infiniti orizzonti che attendono di essere tracciati.


Visto alla Biblioteca de Catalunya
Barcellona, 14 febbraio 2014

Carmen Pedullà

venerdì 21 febbraio 2014

Double Points: Verdi. Dive, donne ed eroine di Emio Greco e PC


Quando lo spettacolo è firmato da Emio Greco e Pieter C. Scholten le emozioni palpitano all’unisono coi battiti del cuore, eliminando persino sul palcoscenico la distanza tra i danzatori e il pubblico. Un cantilenante tintinnio di campanellini, memore di nostalgici carillons, ipnotizza le menti catapultandole in un tempo che non c’è più, ovattato dalle ciprie e i rossetti delle Dive della storia dell’Opera. Al loro posto tre ballerine di fama internazionale, tanto dissimili nel corpo quanto magnetiche nello sguardo: si tratta di Helena Volkov, Suzan Tunca e Kelly Hirina, solo per un’ora – purtroppo – giovani emblemi delle eroine Violetta, Desdemona e Giovanna d’Arco.


Sulle note dell’Ouverture de La traviata si lasciano inondare dall’occhio di bue che le pone al centro della scena, offrendo agli spettatori tutta la propria sensualità, teneramente accarezzata dai lunghi abiti di raso provocanti al punto giusto. Tre effigi di bellezza e austerità tinteggiano l’Arena del Sole dei colori del Cielo, delle rose e dell’oro, fino ad impallidire completamente in flebili sottane quasi incarnate: radiografie tessili dell’animo femmineo celato dall’imponente simulacro della celebrità.
Incappucciate da passamontagna e maglie di metallo guerreggiano tra di loro alla conquista dell’auge del successo, rovesciandosi in un turbine di salti, cadute e grand plié alla seconda così travolgente da mozzare il fiato degli spettatori. Un piccolo accenno alla Cavalcata delle Valchirie wagneriana non può, dunque, fare altro che elettrizzare i più remoti antri della sensibilità.
Tormento e passione, però, non appartengono solo agli astanti: le tre eroine si muovono in perfetta coordinazione come manipolate da un burattinaio invisibile, sbatacchiate dal furore di una vita di fama ed eccessi, dalla quale non chiedono – ormai – altro che di esserne liberate. E il desiderio viene esaudito. Le apocalittiche note del Dies Irae di Giuseppe Verdi accompagnano il viaggio finale della loro gloriosa esistenza, impreziosito da due ultimi barlumi di emozione: gli occhi della Volkov, rigonfi delle lacrime di tutte le donne on e out of stage.


Visto all’Arena del Sole
Mercoledì 19 febbraio 2014

Marco Argentina

venerdì 14 febbraio 2014

Punto e a capo. Le fila di una vita raccontate in scena: La Tristura a Barcelona

Scoprire nuovi teatri a volte diviene un impulso imprescindibile. Una specie di gioco calamita dal quale risulta impossibile sottrarsi. Arrivi a volerne scoprire ogni più minimo frammento, mettendo a nudo l'ingranaggio che lo governa, che lo anima, che gli conferisce forza vitale. E mentre ne annusi gli odori, ne scopri le forme, ne traduci i messaggi, cerchi di soddisfare le lampadine dei perché che si accendono nella tua mente e non si spengono, rimanendo purtroppo senza risposte, tenti di unire i punti che si trasformano in linee, e di unire le linee che divengono forma. Ma si tratta di una forma pura, astratta, immateriale, alla ricerca di un proprio senso: una ricerca quindi esistenziale.
Accostarsi agli spettacoli Materia Prima e Sur de Europa: días de amor difíciles, della compagnia madrilena di teatro sperimentale La Tristura, significa proprio tutto questo: immergersi, nel tentativo di orientarsi, non solo nei meandri della vita, ma anche nei pensieri del cervello umano che a volte sgorgano senza freno, in una corrente invadente, impetuosa, difficile da arginare. Insinuarsi in essi vuol dire anche confrontarsi letteralmente con la tessitura storica della compagnia, che ha deciso di celebrare il proprio decimo compleanno con una rassegna di tre settimane di spettacoli. Per tracciare un punto zero, una fine che vorrebbe forse tentare di proporsi come un nuovo inizio.



Materia Prima appare fin dall’inizio come il tentativo di fermare il tempo e tornare ad essere ragazzi, con i ricordi di chi ormai ha già passato quell'età. In scena ci si ritrova così di fronte a quattro adolescenti che vivono una giornata che appare essere lunga quanto una vita. Si susseguono amanecer, mediodìa, atardecer e noche (alba, mezzogiorno, tramonto, notte): sono i tempi in cui Siro, Candela, Gonzalo e Ginebra si ritrovano a confrontarsi con il senso della vita. Le loro parole si intrecciano con quelle di uno schermo posto sul fondo della scena, che dunque interagisce a volte con le azioni dei quattro ragazzi: sono le parole degli adulti, che si insinuano così in un'età che questi ultimi hanno lasciato alle proprie spalle.
Siro immagina di viaggiare per paesi lontani, di poter restare tutta la vita con chi ama. Si chiede poi se invece vivrà la vita come una noia, come una morte profonda. I pensieri improvvisamente scompaiono e tutti e quattro iniziano a giocare una partita di calcio: un momento intenso, che li riporta ad una pura spensieratezza. Si abbandonano così ad una lotta di colori, si dipingono l'un l'altro per poi schizzarsi d'acqua. Ginebra inizia a raccontare la sua storia, la sensazione di trovarsi fuori dal coro, descrive i nemici del colegio (scuola), tentando di immaginare come saranno i suoi compagni di classe quando diventeranno adulti: persone sobillatrici, capaci di manipolare gli altri. E mentre si svela, raccontando e cercando di pensare come potrà essere il suo futuro, trascina con sé un lungo mantello rosso che a sua volta ricopre rumorosamente tutto ciò che incontra, quasi fosse un velo inesorabile del tempo.
Si arriva così alla sera: le lanternine colorate di una festa si accendono e i ragazzi iniziano a ballare, nella frenesia del canto, del muoversi come cellule impazzite, dell'abbandonarsi al ritmo incalzante della musica. Poi le luci della notte si spengono, ne resta accesa solo una che illumina ciascuno di loro. La luce che forse li accompagnerà nel futuro, che ne disegnerà le vite. «Il nostro primo giorno se ne è andato. Continua a venire qui per viverlo. Continua ad ardere di vita». Infine il buio.



Materia Prima appare chiaramente come un lungo dialogo tra due età: quella degli adulti e quella dei ragazzi, un continuo botta e risposta tra le domande dei primi e le risposte dei secondi.
Latente il desiderio di trovare un nuovo modo di vivere per chi si affaccia ad una delle età più frastagliate ed enigmatiche della vita. Gli occhi degli adulti invece si proiettano come lunghi fari che cercano di illuminare il cammino, di reinterpretare i gesti, gli amori, le delusioni, le gioie che hanno lasciato dietro di sé una polvere sottile, di cui ora resta solo una nebulosa di ricordi. Che attende di trasformarsi in altro. Che attende di incontrare risposte.
L'impressione è quella di trovarsi di fronte ad adolescenti messaggeri, investiti del compito di fornire un nuovo senso ad azioni e valori, cosa che chi li ha preceduti non è stato in grado di fare fino in fondo. Tradotto, gli adolescenti sono chiamati a trasformare il passato degli adulti che cercano invece semplicemente di non immobilizzarsi di fronte al futuro. Spesso lo spettatore rischia di perdersi in questo scambio, non riuscendo a distinguere se si trova di fronte realmente ad adolescenti o invece ad adolescenti che parlano, giocano, ridono con le parole degli adulti. A tratti pare di assistere in scena ad uno sconfinamento tra due età, adolescenza ed età matura, e il tentativo  di riuscire a distinguerne realmente i contorni viene disatteso. Si tratta infatti di un confine labile, facile da infrangere: il rischio è dunque quello di produrre una confusione di intenti, tale da  generare un disorientamento nello spettatore.

Anche El sur de Europa: dìas de amor dificiles propone una ricerca esistenziale sulla vita, tracciando una strada che porti a possibili risposte sull'amore e sulle varie possibilità che gli uomini  incontrano durante la loro esistenza.
All'ingresso il pubblico viene dotato di cuffie con cui dovrà ascoltare lo spettacolo per due terzi della sua durata (prima e terza parte dell’allestimento diviso in tre atti). Inizia dunque un altro gioco, al buio, con la voce di Gonzalo, il ragazzo dello spettacolo di Materia Prima, che fornisce indicazioni dettagliate sull'utilizzo delle cuffie. Un filo invisibile unisce i due spettacoli.


Dalle cuffie, ancora immersi nel buio, iniziamo a sentire le voci di un ragazzo ed una ragazza. Si sono dati appuntamento per partire, un viaggio come ex fidanzati. Parlano, si raccontano, ricordano i momenti vissuti insieme, si confidano sul perché il loro rapporto non fosse funzionato, sull'impossibilità di ricominciare ora, ma anche sulla necessità di continuare a sognare e cercare di congelare quell'anelito di illusione. Una semioscurità avvolge la scena, in cui si intravedono le due figure, sedute spalle alla platea, mentre ammirano le onde del mare una volta arrivati a destinazione. Lui chiede a lei di dirgli quello che vuole sentirsi dire. Lei lo fa. Restano così sospesi in questa dipendenza caratteristica dell'essere umano di voler vivere nella sicurezza, di crogiolarsi nella presunta esistenza di certezze.
La seconda parte si apre in totale opposizione alla prima: via le cuffie, inizia la musica, la scena diventa uno spazio in cui sei amici si sono dati appuntamento per continuare a ballare e cantare freneticamente. Fino ad arrestarsi immobili ed impotenti al suolo. Tutto aleggia nel vuoto, nel niente, in una confusione insensata ed equivalente al silenzio avvolgente ed inquietante che chiude questa seconda parte.
Nel terzo ed ultimo atto gli spettatori tornano alle loro cuffie: in scena appare Chiara Bersani, attrice e creatrice italiana, che, in una notte di pensieri malinconici, dialoga al telefono con un suo ipotetico amore. Racconta come ormai il tempo sia finito, come lei non possa più stare con lui. Confida di aver vissuto sempre pensando al futuro ma ora il futuro è arrivato trovandola impreparata. Non ha più nulla con cui ricominciare, per cui può semplicemente assumere il rischio di perdere tutto lungo il percorso. E poi la notte se ne va, torna il mattino. Ora di ripartire, ora di salutare, ora di andarsene. Ciao.

El sur de Europa: dias de amor dificiles rappresenta la tematica dello scontro con il nulla, con i tasselli di tutte le risposte mancanti che ciascuno porta con sé per tutta la vita. Il tentativo è quello di liberare i corpi, le emozioni dello spettatore dalle proprie responsabilità come individuo per riuscire a trasformarlo in un essere leggero, che si riconosca pienamente nella sua vulnerabilità.
L’allestimento intende così porsi lo scopo di proporre allo spettatore delle strategie di difesa dalle proprie paure (come quella di essere abbandonato al proprio destino) e dallo scorrere inesorabile di un tempo che rischia di produrre solo echi vuoti. La compagnia intende raggiungere quest’obiettivo in un'ottica di intima vicinanza con il pubblico (di qui l'utilizzo delle cuffie), desiderando che il racconto di quanto accade arrivi direttamente a lui: così la narrazione è certo collettiva, ma intende toccare nel profondo ogni spettatore.
Oltre a voler essere un discorso generico sulla vita, La Tristura parla anche di sé stessa: una compagnia che si vede arrivata ad un punto zero, da cui non sa se ripartirà.
Se lo farà, come raccontano i componenti Celso Jimenez, Violeta Gil, e Rafa Alberola, sarà per creare qualcosa di nuovo, che si distacchi da un modo di fare teatro che ormai conoscono minuziosamente. Si ritrovano così in una necessità di vedersi in modo differente, di trovare nuove ispirazioni, nuovi punti da cui ripartire.
«Tornare ad iniziare significa uscire dalla sospensione, ristabilire il contatto tra i nostri divenire. Partire di nuovo, da dove stiamo, ora».
A questo punto resta aperta una domanda, ovvero quale possa essere il divenire per il lavoro teatrale della compagnia, quale soprattutto il suo rapporto con la vita, in un lavoro che spesso, nel tentativo di comprendere e comprendersi, rischia di sfociare in un esistenzialismo a senso unico.
La necessità continua di ridefinizione di nuove vie è fondamentale. Solo che per La Tristura, per poter ripartire senza più cortocircuiti, si rivela forse indispensabile abbandonare un mondo di sentimenti, emozioni, in cui il rischio risulta spesso quello di cadere nell'autorappresentazione: necessario dunque saper osare, tracciando un confine preciso tra teatro e vita.


Visti il 6 e 7 Febbraio al Teatro Pradillo di Madrid

Carmen Pedullà


Dario Fo, giullare di Dio

Chi conosce il teatro di Dario Fo (e risulta difficile non sapere almeno il nome del premio Nobel), sa cosa aspettarsi: una bellissima parabola, una lezione di storia popolare, lontana da ogni canone ufficiale e arricchita con lazzi fisici e verbali caratteristici del grande maestro. E quale migliore parabola se non quella del suo alter ego Francesco, il santo, ma anche giullare di Dio?
A quasi 88 anni – a giorni il suo compleanno, confida agli spettatori che gli regalano uno dei tanti fragorosi applausi – l’attore riesce ancora a tenere con facilità il pubblico, grazie a una gestica semplice (per forza di cose), ma precisa e pulita come sempre, grazie a un senso del tempo di attenzione della belva da domare in platea, grazie al mix folgorante e inventivo di dialetti con cui infarcisce anche questo spettacolo. Come negli ultimi allestimenti – basti pensare al recente Fuga dal senato – il palco presenta una delle tele che Fo ha dipinto con gli allievi dell’accademia di Brera: un dipinto molto grande, che ricorda per certi versi lo stile di Bosch e per altri il cubismo, ma l’atmosfera è molto più celeste, quasi epica, visto che vediamo “la scarruccata”, ovvero la caduta delle torri da parte dei ribelli guidati da san Francesco, come spiega lo stesso Fo.


Oltre alla tela, Fo, insieme a due collaboratrici, mostrerà per tutto lo spettacolo dei disegni e dipinti sulla storia di San Francesco, che poi ripone su un leggio che sembra uscito fuori da un monastero. Così facendo riprende lo stesso stile pedagogico della Chiesa ai suoi albori, quando doveva illustrare i Vangeli al popolo analfabeta.
Com’è solito fare Fo, lo spettacolo è introdotto da questa lezione sulla vita di san Francesco e sull’attualità del suo modello. Non a caso, spiega l’attore magari idealizzando un po’ il personaggio di riferimento, papa Bergoglio ha deciso di adottare il nome di san Francesco, cercando di seguirne l’esempio. Dopo questa lezione inizia il vero e proprio spettacolo, in cui Fo racconta alcuni aneddoti della vita di san Francesco meno conosciuti e censurati dalla versione ufficiale tramandata dalla Chiesa. Fuoriesce così un personaggio molto più brioso, giocondo, provocatorio ma affascinante. Come Fo, anche san Francesco si rivela un vero e proprio affabulatore: dimostra quest’arte ad esempio durante un matrimonio, raccontando della trasformazione dell’acqua in vino da parte di Gesù Cristo durante le nozze di Cana. S’innesca così un mirabolante meccanismo da Le mille e una notte, come quando il papa Innocenzo terzo racconta a san Francesco della moltiplicazione dei pani e dei pesci da parte del Salvatore.

In sostanza Dario Fo riesce in modo ammirevole a lasciare ancora una volta senza fiato gli spettatori, a catturarne l’attenzione, con uno spettacolo che, seppur storico, mostra ancora e sempre l’attualità di una figura come san Francesco. L’attore, con la sua arte affabulatoria, dimostra come ancora oggi sia necessario un predicatore giullare che ci illumini con le sue verità, anche scomode, ma quanto mai preziose. 


Lo Santo Jullare Françesco,
Visto martedì 11 febbraio 2014 al Teatro Duse
               

Fabio Raffo

mercoledì 12 febbraio 2014

Il discorso e ciò che ne consegue: i primi due spettacoli nati dal nuovo progetto della compagnia Fanny&Alexander fanno tappa all’ITC


Parole,parole, parole… una babele di frasi fatte che pulsano nel cervello come ricordi fastidiosi e occludono le orecchie con il loro carico di vuoto, di nulla. Parole che perdono significato, si trasformano in esercizi di articolazione per bocche meccanicamente abituate a parlare che ormai hanno perso la strada del senso, dimentiche della loro potenza di agire, di creare ponti significanti, di unire uomini: di fondare comunità. Gli ingredienti usati dalla compagnia ravennate Fanny&Alexander nella costruzione dei loro Discorsi spingono a una riflessione civile sul significato del parlare nei vari contesti di utilizzo e, soprattutto, nei diversi rapporti individuo-comunità che di volta in volta si definiscono. 
Si parte con Discorso Grigio, con questo rigurgito di memorie uditive composto da discorsi ufficiali, fuori onda, motti di spirito e trovate più o meno raccapriccianti della nostra classe politica. A dare corpo e voce in maniera encomiabile al purtroppo vasto repertorio è Marco Cavalcoli: gesti secchi e parole mozze formano la partitura scenica di un allenamento ai limiti dello sfinimento per questo politico in maniche di camicia (senza giacca, a imitazione dell’immagine restituita dall’emergente classe politica nei discorsi pubblici). Cuffie calate e microfono alla mano, l’attore si barcamena nel mare nero del dire, dove tra tutti spicca il reiterato “credevo fosse ancora una prova, eh…dovevate dirmelo”. È un crescendo di ilarità per il pubblico, ma è un riso amaro quello che ne consegue, come giustamente riflette Nicola Bonazzi nell’incontro post-spettacolo con la compagnia: la potenza catartica del teatro ha ancora il suo ruolo nella comunità che si riconosce come co-protagonista portata in scena (la presenza, poi, di Romano Prodi tra il pubblico dell’ITC rende la presa di coscienza ancor più esilarante). Per fortuna, siamo ancora coscienti, non fagocitati del tutto dalla cultura del vuoto ridondante in cui viviamo, e per fortuna riusciamo ancora a riconoscere l’ironia del tragico quotidiano e sociale sul palco. L’attore in scena, adesso con la giacca, non rappresenta tanto un politico in particolare, quanto un corpo pronto alla possessione a cui adegua gesto e parola con una capacità imitativa notevole. Man mano che lo spettacolo va avanti tutto si frammenta: le frasi diventano parole mozze, il gesto arriva allo spastico e il discorso politico lascia spazio alla costruzione del suo simulacro.


Entra in scena un mascherone che ricorda tratti fisiognomici dei vari volti responsabili dell’ultimo ventennio italiano, arricchito da un paio di mani smisurate che rimandano a gestualità caratteristiche del nuovo MoVimento politico. Il fantoccio si lancia poi in un girotondo senza sosta, in cui la partitura fisico-vocale diventa completamente surreale, grazie anche al ruolo fondamentale della musica (merito di Mirto Baliani) che accompagna  questo corpo non più umano, ma puramente iconico. Il risultato è un disco rotto di parole buttate a caso che hanno perso a tal punto il loro senso da trasformarsi in canzone e un corpo schiavo di questa circolarità di rimandi che non riesce a far altro se non muoversi in tondo.


Arriva il tanto agognato e sofferto “discorso” fatto di parole vuote a cui sopperisce  un silenzio altamente comunicativo: occhi negli occhi Cavalcoli ci riporta nel cerchio dell’orchestra, nel teatro dell’origine dove il dialogo è continuo ma senza voce. Dove c’è comunità.


La seconda tappa, Discorso giallo, non è da meno per complessità dell’argomento trattato: se nella “prima parte” il discorso del medium radio-televisivo aleggiava nella dimensione totalizzante del parlato, qui diventa punto vitale dello spettacolo insieme alla pedagogia. È una riflessione che si costruisce “nel nome di Maria”: partendo dalle lezioni scolastiche televisive del maestro AlbertoManzi, per poi trattare del luccichio inquietante del talento infantile portato alla ribalta da Sandra Milo, Chiara Lagani arriva infine all’incontro surreale De Filippi-Montessori. Qui, più che al riso amaro, lo spettatore è indotto al silenzio riflessivo: l’icona della pedagogia italiana si trova a dialogare delle sue passate difficoltà con il sistema scolastico di fronte al nume tutelare dello share televisivo, Maria De Filippi. Maria Montessori, l’immagine dell’insegnamento (che coerentemente l’attrice, nei panni della conduttrice di talent, denota come la signora delle mille lire) è ospitata in quello che è l’odierno spazio riservato alla pedagogia in televisione: il talent-show. 


Viene evidenziata la perdita di ogni valore della pedagogia, nel momento in cui le dinamiche dell’insegnamento vengono strumentalizzate e ingabbiate nella logica dello share televisivo. Tuttavia il modus operandi non cambia anche in questo secondo discorso: il legame con la realtà è sempre presente grazie a rimandi chiari, la partitura scenica è un continuum fisico-vocale che spesso arriva a momenti di vitalità e schizofrenia estrema grazie all’utilizzo da parte di entrambi gli attori di auricolari, con i quali vengono impartiti ordini in diretta. Il metodo usato è dunque quello dell’induzione, ormai caro alla compagnia.  
A questo punto il riferimento all’educazione tradizionale è reso evidente da una Chiara Lagani in grembiule e codini: schiaffi improvvisi interrompono il racconto di cinquant’anni di storia del costume, dagli albori tentennanti di una società che tenta di usare un nuovo mezzo per formare individui non più vittime dei loro limiti, fino al pericoloso binomio talento-successo inculcato a una massa adolescenziale. Si respira un’atmosfera repressiva: voci infantili interrotte nei loro risolini da divieti chiari e perentori, gli schiaffi già citati che percuotono le guance di menti troppo innocenti per capire la “misura del buonsenso”. La pedagogia porta a una negazione dal reale, tramite due strade diverse ma entrambe dominate dall’ipocrisia della nostra cultura educativa: da un lato la società del sorriso e del finto perbenismo del palinsesto televisivo, dall’altro la dimensione scolastica che non consente la libera espressione del singolo. Il futuro cittadino, e quindi membro della comunità, recepisce perciò questo metodo educativo come una gabbia di regole inculcata e che non ha nulla a che fare con la sua crescita quotidiana: la scuola non è come l’amore, recita l’attrice seduta al suo banco nel ruolo di bambino sognatore. 


Alla fine arriva l’icona della pedagogia italiana, ovvero il faccione della Montessori, dei cui insegnamenti e della cui personalità c’è rimasto, nel ricordo, il sorriso bonario sul vecchio conio. Il silenzio nel finale viene rotto dalla risata noncurante di una maschera di plastica: una bambola senza identità si scopre sotto il mascherone, e si contrappone alla scritta IO che Chiara Lagani porta incisa sui palmi sin dall'inizio del suo discorso. 



Una riflessione sulla perdita di coscienza del ruolo del discorso nella società, portata avanti grazie anche alla potenza denotativa del colore: le tonalità scelte sono proprio gli spettogrammi di ciascun discorso, come il grigio è il colore dell’indefinito, così il giallo è il colore dell’ammonimento. Tuttavia, la scelta non è così univoca: come ogni colore ha le sue sfumature e i suoi possibili significati, così ogni discorso ha le sue possibilità di interpretazione, di ipotesi.


 È ancora un lavoro in corso quello che articola il progetto di messa in scena dei sette Discorsi: una ricerca che non si affanna nel redigere tesi, ma continua ad interrogarsi. La prossima tappa toccherà a marzo Castrovillari, con Discorso Celeste che nella sua indagine unisce, in un curioso binomio, i due campi religione e sport: la ricerca si eleva verso l’alterità del corpo e dello spirito, verso un cielo che, si spera, è sempre più blu.

Disorso Grigio – Disorso Giallo di Fanny&Alexander

con Marco Cavalcoli, Chiara Lagani
regia di Luigi de Angelis
Visto a ITC –  Teatro di San Lazzzaro, l'8 febbraio 2014

Elvira Scorza