sabato 26 marzo 2011

Quattro chiacchere con Ida Marinelli

Ida Marinelli, attrice veronese diplomata presso il Piccolo Teatro di Milano e volto storico della Compagnia dell'Elfo ha gentilmente rilasciato un'intervista per il nostro blog, al termine dell'incontro Attrici in personaggi maschili, organizzato dalla docente Laura Mariani nel calendario della Soffitta 2011.

Parlando della sua recitazione, del suo modo di stare sul palcoscenico, ha detto di avere la sensazione di disegnare il suo corpo nell’aria, intorno a sé. Questo può, in qualche modo, ricondurre allo straniamento del teatro epico brechtiano?
“Credo che la distinzione tra lo straniamento brechtiano e l’immedesimazione stanislavskijana resti tale solo a livello teorico. Nella pratica, spesso, si lavora facendo un’intersezione tra le due. E questo vale anche per me. Brecht stesso, nella formulazione del suo metodo, si rifà all’immedesimazione, anche se la utilizza per raggiungere un risultato altro rispetto a quello voluto da Stanislavskij. A mio parere una cosa contiene l’altra. Una cosa non si può fare senza l’altra”.

Durante l’incontro ha detto che il travestitismo è stata una costante dei lavori della sua compagnia. Per quale motivo?
“Molti degli spettacoli iniziali erano favole, per cui accadeva che si avesse bisogno di un personaggio maschile o femminile in più, rispetto al numero di attori uomini o donne. Allora il travestirsi era una scelta obbligata. Successivamente è diventata una scelta legata al testo. Un elemento che non abbiamo mai ricercato a tutti i costi, ma che ci ha sempre affascinato.”

Sempre durante l’incontro ha accennato alle difficoltà che ha incontrato nell’interpretazione di Petra Von Kant. Una donna molto sofisticata, elegante, lontana dalla sua personalità. Dal filmato che ci ha mostrato, questo non si nota affatto, quindi è evidente che la bravura di attrice ha colmato la distanza che c’è tra lei e questo personaggio. Ci ha colpito, però, il fatto che lei abbia parlato di queste sue difficoltà, cosa che un attore di un certo spessore, come lei è, fa molto raramente.
“Nel mestiere dell’attore, come nella vita, si deve sempre iniziare daccapo. L’esperienza e le capacità aiutano, ma non bastano. A volte ci si sente inadeguati per ciò che si è chiamati a fare, ma con l’impegno e il lavoro si possono ottenere dei risultati. Il mestiere di attore è fatto di alti e bassi, non sempre si trova la via giusta per interpretare un ruolo. Ogni nuovo personaggio ci mette alla prova, ci mette davanti a delle difficoltà che dobbiamo cercare di superare.

L’ultimo spettacolo che il Teatro dell’Elfo sta portando in scena è “The History boys” di Alan Bennet. Perché l’avete scelto?
“Negli ultimi anni ci stiamo occupando del rapporto insegnante-allievo, sia per quanto riguarda la scelta dei testi, sia nella vita della compagnia. I registi (Elio De Capitani e Ferdinando Bruni) spendono molto tempo e amore per i provini. Sono piuttosto generosi, non solo nel lavoro di ricerca, ma anche in quello di preparazione di queste giovani leve. C’è rispetto per i nuovi e differenti linguaggi dei ragazzi. Questo permette di creare una fusione di energie tra attori giovani e attori storici della compagnia. Attraverso la scelta dei testi, poi, si dà la possibilità a questi ragazzi di affrontare ruoli importanti e che mettano in luce le loro capacità”.

Mariangela Basile

Stracci della memoria



A livello sensoriale lo spettacolo Stracci della memoria  è avvincente. Appena entrata nei Laboratori DMS, l’atmosfera è completamente diversa da quella scura e piovosa che avevo abbandonato all'esterno. Sedendomi al bordo del palco, i confini fra lo spazio teatrale e me iniziano a dissolversi, in empatia con la performance che sto per vivere in cui i confini dei ricordi, delle sensazioni interne e delle emozioni manifeste sono fluide e in continuo ridisegnamento. Prima dell'entrata dei due performer, Anna Doro Dorno (la regista) e Nicola Pianzola (che ha partecipato pure alla drammaturgia della performance), l'organizzazione simbolica del palco richiede attenzione. A parte qualche momento in cui la fluidità è interrotta, durante tutto lo spettacolo il senso di incanto e di immersione nel mondo privato di due persone sconosciute e nel loro rapporto intimo, intenso e normalmente privato è costante e perpetuo.


Questa creazione di uno spazio astratto è molto lontano della quotidianità ma fatto in sostanza di esperienze e di rapporti umani. La scena è composta da un circolo di sabbia bianco, un altro di sabbia gialla-marrone circondato da candele e un semicerchio di rocce; si trasforma organicamente durante la performance insieme all'aspetto degli attori, andando a  creare il senso di un viaggio condiviso. Le sembianze dei performer, inizialmente vestiti in modo formale e ordinato, passano attraverso il disordine acquisendo alla fine un aspetto selvaggio.  Durante lo spettacolo, anche i movimenti e le loro voci attraversano diversi stadi: .il controllo e la solennità iniziale si dissolvono, arrivando a una fisicità energica accompagnata da canzoni che mutano dalla forma originale e si avvicinano ai suoni primordiali. Per esternare quello che normalmente è nascosto e mostrare le delusione e la disparità che nasce fra due persone è richiesta sia la vulnerabilità che la forza, qualità che in Stracci della Memoria sono messe sulla bilancia in modo efficace e coinvolgente.

Sherene Meir

Macadamia Nut Brittle


Macadamia Nut Brittle, pieno di emozioni, va in scena a Bologna il 10 febbraio  a Teatri di Vita, un giorno più tardi del previsto a causa del lutto inaspettato di un attore. Sarà perché le repliche, per questo motivo, sono state ridotte a due soltanto, ma la sala è strapiena. Sono tutti felici di aver visto lo spettacolo di Ricci e Forte, considerati gli enfants terribles della drammaturgia italiana. La produzione di Macadamia Nut Brittle, realizzata in collaborazione con la rassegna di teatro omosessuale Il Garofano Verde, ha permesso loro di far breccia nei cuori del pubblico italiano e, parlando di me stessa, anche in un cuore spagnolo: sono in Italia in Erasmus e, dal mio punto di vista, posso dire che anche se ho avuto difficoltà a capire i dialoghi e alcune espressioni alla perfezione, sono in grado di effettuare una valutazione di tutto ciò che lo spettacolo mi ha dato. Per la prima volta da molto tempo ho visto la voglia di drammaturghi di esprimere idee e sentimenti, come credo dovrebbe fare il teatro contemporaneo, abbandonando vecchi modi di messa in scena di testi scritti nel passato, che per sfortuna sono ancora presenti in molti teatri nazionali di prestigio. 


Macadamia Nut Brittle è un passo in avanti e rivendica che il teatro sia qualcosa di più che la sola recitazione di un testo. Anche se Macadamia è ispirato ai romanzi di Dennis Cooper, sono molti i fattori coinvolti nello spettacolo: il progetto di regia, la drammaturgia, l’interpretazione, la musica, la scenografia, il pubblico... Ricci e Forte offrono un esempio di quello che dovrebbe essere il teatro del XXI secolo, una performance davvero scenica dotata di un carattere internazionale, comprensibile dal pubblico più vario. Come nel mio caso per esempio: anche se mi mancano le competenze linguistiche per capire bene lo slang italiano e vorrei leggere i testi originalie di Dennis Cooper per apprezzare il loro adattamento e rendermi meglio conto di com’è l’interpretazione degli attori, mi sento in grado di fare una critica dello spettacolo: basta avere i sensi aperti e pronti a ricevere emozioni per essere in grado di dire che Macadamia Nut Brittle è un lavoro di prima classe.

Ricci e Forte mi hanno trasmesso sentimenti che era molto tempo che non mi aveva regalato nessun altro spettacolo teatrale: compassione, amore, tenerezza, angoscia, rabbia, allegria, passione... e soprattutto una morale.
Questa, forse, mi è sembrata un po’ confusa, le mie carenze linguistiche e la complessità dei temi trattati aumentano la possibilità di percezione soggettiva dello spettacolo, cosa che, penso, lo rende più interessante da analizzare. Questo lavoro svolge due rami tematici: i mezzi di comunicazione di massa e il consumismo, la sessualità libera.

Questi due soggetti, che inizialmente sono esposti parallelamente, saranno collegati alla fine dello spettacolo, in forma equiparata, abitando insieme, suggerendo una possibile connessione tra loro: si può considerare il consumismo e la dipendenza dal sesso come una stessa cosa? Si deve considerare una dipendenza o è semplicemente un modo per educare e far loro vedere che non è proprio così grave?
Forse pretende di dimostrare che siamo tutti uguali, che in fondo sentiamo tutti una stessa passione per il sesso selvaggio e le multinazionali e, allo stesso tempo, fa una critica della società dei consumi selvaggi in cui stiamo vivendo, suggerendo che questi eccessi sono sempre pericolosi e catastrofici?

Molte domande sono generate al termine dello spettacolo, molte riflessioni nate nelle menti degli spettatori, alcuni sorpresi di più rispetto a altri, ma tutti con questioni esistenziali, dopo aver visto gli attori feriti in rapporti che evocano un’orgia continua, violenta, dove si possiede e si è posseduti come cose disperate, mentre indossano le maschere dei Simpson e abitano nelle casette di Winnie the Pooh. Surrealismo? Critica sociale? La seconda opzione è la più azzeccata secondo me, un tipo di critica sociale suggestiva, con l’intenzione di provocare una riflessione ma senza offrire risposte e soluzioni, con l’intento di educare e, soprattutto, di produrre reazioni da un pubblico ricettivo.

Un desiderio terribile di leggere i libri di Dennis Cooper e un sentimento di piena soddisfazione per aver potuto assistere a uno spettacolo di questo livello di interpretazione/realizzazione da tutti i punti di vista. 

Penso che gli attori abbiano avuto veramente fortuna a poter sperimentare in scena tutti questi sentimenti; pochi sono quelli che oggi lo possono fare. Ma anche, penso che il merito assoluto della buona riuscita dello show sia dovuto a ciò che i drammaturghi hanno voluto esprimere.

Grazie Ricci e Forte, grazie per aver rilanciato il teatro in forma di arte contemporanea.

Dina Caball Olivet

Piazza d'Italia


Non mi piace. Non mi sta piacendo. Non mi è piaciuto.

Queste sono state le riflessioni molto “complesse” che la mia mente ha prodotto, durante e dopo lo spettacolo diretto da Baliani, tratto dall’omonimo romanzo di Tabucchi Piazza d’Italia. Ora bisognerebbe soffermarsi sul “cosa” non mi è piaciuto e sul “perché”. Anche qui, la risposta è “complessa”: nulla. Non mi è piaciuto nulla, a partire dalla scenografia, passando per la recitazione, fino ad arrivare all’emozione. Il tutto mi pareva finto. Totale mancanza di ironia, e ammetto che qui magari c’entra il mio gusto personale. Visto e considerato che lo spettacolo aveva come tema centrale la monotona ripetizione dell’esistenza umana, durante i 100 anni di storia ripercorsi dall’autore in 90 minuti sul palcoscenico, avrei voluto come minimo farmi una risata. E veniamo alla storia, dato che parliamo di teatro di narrazione. Protagonista è la famiglia di Garibaldo, una famiglia di provincia.


Il dramma inizia e finisce con la morte.
La morte di Garibaldo appunto. La narrazione delle vicende familiari è affidata ai protagonisti stessi, che utilizzano monologhi per spiegare quanto accade sulla scena. Il periodo storico entro cui si sviluppa la trama va dall’Unità d’Italia fino alla fine degli anni ’50. Al centro del palcoscenico è presente un grosso cubo, dal quale gli attori entrano ed escono con ritmo incalzante. Al suo interno si compiono le azioni più significative, che muteranno il corso degli eventi. Anche questo elemento scenografico a mio parere risulta essere troppo ingombrante, togliendo spazio alla recitazione degli attori, che appaiono impacciati, quasi costretti all’immobilismo. Tono narrativo sempre concitato, dialetto quasi mai utilizzato se non per il personaggio dell’apostolo Zeno. Si fa fatica a seguire con attenzione le vicende narrate, con il risultato di non essere coinvolti, e ciò nuoce allo spettatore che invece, degli argomenti trattati dovrebbe sentirsi più che mai protagonista. In fondo è proprio questo che Baliani ha cercato di mettere in evidenza senza riuscirci, la sofferenza prima e dopo l’Unità d’Italia non è cambiata e ci riguarda da vicino oggi, come e più di ieri.

Davide Di Lascio

mercoledì 23 marzo 2011

West, ovvero il nostro Occidente della libertà.

Si chiama Dorothy, ha 52 anni. Compie gesti inconsulti che paiono far trapelare agitazione, che sembrano tratteggiare un personaggio segnato da una colpa da scontare o da una nevrosi latente.
La musica incalza, facendo aumentare il ritmo anche del nostro battito cardiaco: si compie una sorta di contagio emotivo. C’è tensione nell’aria, la donna sembra giustificarsi di fronte a una corte.
La sua storia ci arriva a brandelli, narrazioni di momenti in cui il libero arbitrio è stato messo in discussione. E sempre più comprendiamo come la libertà sia il tema fondante dello spettacolo.
Il meccanismo alla base della rappresentazione ci viene svelato lentamente: l’attrice è dotata di due auricolari dai quali sente una voce maschile e una femminile. L’uomo le indica i movimenti da compiere, la donna le parole da dire. Dorothy, nella sua storia e nelle sue movenze, è totalmente guidata da fili nell’etere che la muovono come un burattino.

Il racconto è frammentato, intervallato da frasi della tradizione pubblicitaria. Il corpo è scomposto nelle sue periferie, mani e piedi non dialogano, ma si muovono autonomamente come se non fossero parte del medesimo organismo. Gesto e parola non sono legati, avanzano parallelamente, condotti da due voci diverse, quelle di Chiara Lagani e Marco Cavalcoli, come due partiture che in tempo reale sono sintetizzate dal corpo della protagonista. Si tratta di Francesca Mazza, storica attrice di Leo de Berardinis e co-fondatrice con lui del Teatro di Leo, che qui collabora con Fanny & Alexander, compagnia ravennate tra i maggiori esponenti del teatro di ricerca del territorio romagnolo. La magistrale interpretazione di West è valsa alla Mazza l’assegnazione del Premio Ubu 2010 come attrice protagonista.

La compagnia Fanny & Alexander si ispira al racconto di Frank Baum Il meraviglioso mago di Oz, allegoria del sistema statunitense di fine ‘800, mantenendo però solo alcuni riferimenti visivi e destrutturandone l’impianto narrativo. La riflessione su questo racconto ha, per la compagnia, una lunga storia e numerosi sono gli spettacoli nati dalla sua rilettura in chiave contemporanea.

West è un sagace carotaggio del mondo dei consumi, che emerge attraverso citazioni televisive e pubblicitarie, nelle sue scintillanti contraddizioni. Modi di dire, frasi fatte, slogan subiscono qui un ribaltamento che ha il potere di svelare al pubblico modi di pensare ormai incorporati, ma su cui mai ci si è soffermati tanto a ragionare. Lo spettacolo, in scena il 9 e 10 marzo a Teatri di Vita, ci fa sondare quanto sia radicata in noi l’illusione di poter disporre del nostro corpo, di poter tracciare giorno per giorno la linea della nostra vita.

La protagonista, come noi immersa nel mondo delle libertà apparenti, sogna un altrove statunitense che le assicuri indipendenza e autarchia, regno del supremo individualismo, meraviglioso mondo di Oz. Questo sogno le permette di proiettarsi in una seconda vita, mentre osserva la prima scivolarle via attraverso il sangue che sgorga copioso. Nemmeno nel momento della morte la donna è libera di decidere del proprio destino, le viene imputata la colpa di non essersi presa cura di se stessa e deve difendersi da questa accusa.


Mentre si dibatte tra ciò che è, ciò che mostra di sé e ciò che gli altri vorrebbero da lei, dalle sue labbra trabocca come un rigurgito il celebre slogan: “L’immagine è zero, la sete è tutto. Ascolta la tua sete!” che ben esprime il tentativo della società dei consumi di naturalizzare i nostri nuovi bisogni non più prodotti dell’autoregolazione, ma dettati dall’ambiente in cui siamo immersi.
Siamo tutti come burattini, mossi da fili invisibili, espressione delle dinamiche di potere e del mondo culturale di cui anche noi siamo un prodotto.
Anna Parisi

Una strada a senso unico: West

Partendo dell'unica presenza di “Dorothy” (Francesca Mazza) sul palco, West tesse sia la sua storia individuale, sia il racconto di uno dei destini possibili nel nostro mondo contemporaneo. La forma semplice del palco (un grande quadro demarcato con nastro bianco con un tavolo e una sedia al centro) inganna all'inizio, insieme con il costume di “Dorothy” (le scarpe rosse e il vestito da ragazzina, tipiche del personaggio): sembra la scena dell'inizio di una fiaba. 

Ma già le prime parole, <<Io sono Dorothy. Ho 52 anni. Sono una persona coraggiosa>>, distorcono l'idea iniziale. Invece della fanciulla giovane della fiaba tipica, West mostra una donna di mezza età alle prese con lo stesso problema centrale del Mago di Oz: la mancanza di fiducia in sé, portato però nel mondo quotidiano invece che in quello immaginario di Oz. Questa giustapposizione dell'apparenza infantile di "Dorothy" rispetto ai dilemmi fondamentali della vita è molto efficace e fa emergere la difficoltà di agire nel modo "giusto"rispetto alle richieste fatte dalla società agli "adulti".
 
L'affermazione di "Dorothy" <<sono coraggiosa>> è messa immediatamente in crisi con una seria di dubbi che costellano il significato della parola "coraggiosa". Attraverso il sonoro creato dal vivo dal dj Mirto Baliani, le parole si mescolano, si sovrappongono con la musica, ne vengono inghiottite. L'ambiente caotico, che riflette la molteplicità della vita contemporanea, è creato attraverso la ripetizione di parole.
Anche i movimenti agitati, che finalmente portano “Dorothy” a distanza del tavolo e ai margini, ma mai oltre quei confini, del quadro scenico, evocano l'ansia legata al mondo moderno. L'uso di parole minime, che può essere riassunto in definittiva con l'opposizione fra "fare" e "pensare", permette la rappresentazione simultanea del mondo esterno e di quello interno di "Dorothy", entrambi disorientanti, che si influenzano a vicenda. Infatti West mostra che quei mondi non possono essere separati, "Dorothy" è il prodotto del mondo contemporaneo travolgente.

 
Durante la performance, Francesca Mazza si esibisce con molta energia portandoci dentro la sua nuvola di incertezza, così tanto, che abbiamo la sensazione di essere impotenti in un mondo che ci inghiotte. Anche se l'esecuzione della performance trasmette il senso dell'individuo perso, bloccato nella vastità del mondo, la struttura in crescita progressiva attraverso i volumi, i suoni e i movimenti, appare troppo ovvia e senza varietà.
Nel Mago di Oz Dorothy scopre che ha in sé la capacità di uscire da Oz. West, come il nome suggerisce, presenta un vicolo cieco senza salvezza. Pur con un uso intelligente del suono, della fisicità e del palco. Lo sguardo limitante della performance, in cui non si può uscire della mente di "Dorothy", è alla fine unidimensionale e il clima è prevedibile.

Sherene Meir