Recensione
I due vitelli di InFactory: giovani trentenni di oggi
di Josella Calantropo
È al vita che si fa teatro,
ancora una volta. Sono le paure vere di due trentenni messe in versi. Sulla
scena di InFactory vengono
esplorate le vite di due vitelloni cresciuti tra il delirio di onnipotenza per la
possibilità di sognare e il disicanto della realtà. Due ragazzi degli anni ’80
che avevano creduto nella speranza del futuro, con l’illusione che tutto
sarebbe stato possibile, bastava volerlo fortemente. Due giovani, adesso
trentenni, che si trovano soltanto un pugno di mosche in tasca. Ingannati, delusi,
impauriti. Senza nessun orizzonte, che si accontentano di lasciarsi vivere, che
hanno come unica prospettiva quella del macello che presto o tardi li vedrà adagiati su vassoi di polisterolo confezionati
con abbondante cellophane.
La Compagnia Teatro/Stalla
Matteo Latino vince il Premio Scenario 2011 con la seguente
motivazione:
“La condizione dei trentenni
esplorata, allusa, svelata con crudeltà e poesia attraverso la metafora di due
vitelli a stabulazione fissa prossimi al macello. Un dialogo che non avviene,
che è esposizione frontale, danza riflessa su schermi virtuali, esercizio
solitario di una poesia raffinata, di cui i due attori si fanno tramite per
scoprire risorse lessicali, metriche, timbriche di una lingua che trova
un’inedita cittadinanza sulla scena giovanile.
InFactory nasce al
teatro per vie originali e impreviste, che rielaborano la biografia e la
letteratura, il mondo delle immagini e le nuovissime risorse della
comunicazione interattiva per farsi lente di ingrandimento su uno spaccato
generazionale sul quale si sospende il giudizio ma si aprono molte domande. A
partire dalla questione, implicita eppure lacerante, di come conquistare
finalmente l’uscita verso la campagna aperta, ovvero verso un futuro di libertà
e realizzazione personale.”
Matteo Latino, autore, interprete e
regista, riesce a raccontare quello che molti suoi coetani non riescono a
razionalizzare. Utilizza i mezzi del teatro, e lo fa con consapevolezza.
Nonostante questa sia la sua prima vera regia, si intuisce, ancora in germe,
sensibilità e destrezza per i mezzi del mestiere.
La sua scrittura è
incalzante, poetica e concreta. Procede per frasi che non aprono un dialogo
drammaturgico; rimane un monologo diviso tra due attori. Le parole come lance
vengono lanciate in avanti verso la platea. La scena è funzionale e coerente al racconto non
usa fari o luci esterne, la illumina sempre dall’interno, e ci restituisce il
punto di vista dei due vitelli chiusi nella stalla. Il suo compagno di palco è Fortunato
Leccese, in sintonia e partecipe del lavoro. I due performer si muovono
ritmicamente , accennando a movimenti di danza, che scandiscono la recitazione,
ricordando gli scatti inconsulti dei vitelli chiusi nei recinti.
Intervista
InFactory
prima e dopo Premio Scenario: una
chiacchierata con Matteo Latino
di Josella Calantropo
Matteo Latino, giovane attore
di 30 anni di Mattinata del Gargano e trapiantato a Roma, ha vinto il Premio Scenario 2011 insieme a Fortunato Leccese - suo compagno di
scena – con lo spettacolo InFactory. Lo intervistiamo per
cercare di capire come ha vissuto l’esperienza di Scenario e per farci
raccontare la sua storia.
Come
è nata la Compagnia? È nata ad hoc
per il Premio Scenario?
Sì e il progetto della compagnia l’ho
ideato io.
Ma
lei recitava prima? Era attore in qualche altra compagnia?
Io e Fortunato (Leccese, ndr) avevamo
fatto la stessa scuola.
Cioè
quale?
Il Centro Internazionale La cometa a Roma.
E
da chi è diretto?
Da Lilli Cesare e Gianfranco Isernia, e
quindi noi ci eravamo conosciuti in quella occasione. Poi la Compagnia Teatro/Stalla anzi
esattamente l’ Associazione promozione sociale non profit Teatro/Stalla è nata a causa del Premio Scenario e infatti è
successo dopo.
In
che senso?
Avete costituito questa compagnia per
partecipare a Scenario?
Noi abbiamo partecipato a Scenario, come
molti partecipano, senza sapere se avremmo vinto e senza neppure porci il
problema. Solo che una volta vinto il Premio abbiamo dovuto sistemare burocraticamente
questa condizione.
Quindi
in pratica InFactory è la vostra prima opera?
Sì, sì!
E
voi avete fatto tutto: drammaturgia, scene…?
Io ho prevalentemente curato la regia,
il soggetto, le scene e ho scritto il testo. Poi insieme a Fortunato nel
mettere in scena si cercava di capire più o meno l’utilizzo degli strumenti
come potevano essere utilizzati. In più c’è un pezzo all’interno dello
spettacolo che ho chiesto a lui di elaborare emotivamente sul suo percorso
personale di vita. Lui ha buttato giù delle cose scritte e poi man mano lo
lavoravamo insieme e subiva delle trasformazioni e degli adattamenti. Per quanto
riguarda le scene abbiamo fatto un po’ di necessità virtù: venivano a mancare
le persone, non potevamo pagare nessuno per mancanza di fondi e quindi eravamo
noi stessi a dover mettere la musica, accenderci le luci. Questo autogestirsi
però mi piaceva moltissimo esteticamente: un attore che si accende la lampada e
attacca il monologo secondo me è molto teatrale.
Di
cosa parla Infactory?
È la storia di due vitelli che vivono la
condizione di stabulazione fissa, cioè una condizione di staticità, convinti
che dopo questa costrizione, fermi a mangiare, un giorno arriveranno alla
libertà, quindi al pascolo. Io però sono partito da un’altra suggestione
ovvero: sono consapevoli che un giorno andranno al macello? Questo è frutto
della mia esperienza personale: i miei genitori hanno un agriturismo con
vitelli, con un macello all’interno delle stalle. Mentre passavo per vari
motivi davanti a questi vitelli mi domandavo: loro sanno che un giorno saranno
protagonisti di quella stanza? Da qui nasce l’idea. E ho iniziato a scrivere.
Come
è iniziato il lavoro?
Abbiamo cominciato ad andare nelle
stalle a fare un percorso di studio e di osservazione dei vitelli. È stato un
periodo molto importante perché man mano che si stava lì abbiamo cominciato a
riconoscerci al posto dei vitelli. Così si è capito che il vitello poteva
essere una grande metafora della nostra condizione. Mi accorgevo che emergeva
sempre di più l’immagine dei vitelli-ragazzi. Poi ci siamo bloccati, anzi ho
sentito la necessità di bloccare. Mi rendevo conto di avere esaurito tutte le
immagini e tutte le emotività che potevano servire a creare e dovevo fare una
pausa lunga di riflessione per ripensare a tutto quello che avevamo fatto fino
a quel momento.
Come
e perché siete ripartiti?
Perché ero incuriosito dal linguaggio e
proprio da lì ho ricominciato. Stavo andando a caccia di parole che ci dessero
la sensazione di puzza nel momento stesso in cui si pronunciavano. Cercavo parole
con un suono particolare, con una metrica che mi permettesse di imitare il
verso dei vitelli; volevo cercare e trovare delle parole da far suonare in
bocca all’attore che potessero dare la sensazione del muggire. Mettendoci in
bocca le parole, ruminandole, digerendole, si capiva quale parola era meglio
tenere, quale era meglio lasciare. Ero incuriosito di capire cosa si potessero
dire due vitelli. Ed è una cosa che ancora ora mi accompagna, anche se sento i
gabbiani - perché adesso in città ci sono i gabbiani - mi chiedo chissà cosa si
stanno trasmettendo, e allora mi immagino dei dialoghi…
Ma
di quale parte di Roma siete?
Pigneto, dove c’è il mercato, e lì ci
sono i gabbiani che rubano il pesce.
Cercavate
di capire cosa si potessero dire i due vitelli, ma in realtà non c’è nessun
dialogo nella drammaturgia...
Esatto, perché mi sono reso conto che
questi due vitelli vivevano una forte solitudine e così ho mi sono immaginato
che questa solitudine si poteva raccontare con una forma monologante e non
attraverso il dialogo, anche perché il dialogo non si riusciva a creare. Primo
perché non mi sento pronto, maturo al punto giusto di gestire registicamente un
dialogo; e poi perché accresceva l’emotività l’idea che questi due vitelli
potessero stare in una condizione isolata, statica. Infatti tutta la ricerca
che ho fatto di immagini, di musiche, di luci era in funzione del fatto che
volevo raccontare due solitudini.
Come
vi ha aiutato il Premio Scenario?
Con la costrizione dei “cinque minuti”.
La prima fase da presentare al concorso è un pezzettino dello spettacolo che
sia appunto di cinque minuti, poi si passa alla presentazione dei “venti
minuti” che è la fase che verrà premiata e solo alla fine si arriva a poter
presentare lo spettacolo finito. Il primo segno lo abbiamo messo quando ci
siamo dati il limite dei cinque minuti perché sapevamo che lì dovevamo mettere
un seme, dovevamo scegliere dei segni attraverso i quali poi comunque
raccontare una storia. Quando mi sono trovato di fronte a questo
limite-occasione sono nate le scatole, sono nate le lampade e le maglie
scritte. Dopo aver passato la fase dei cinque minuti che il Premio Scenario ci
aveva tra virgolette imposto, siamo andati avanti per progettare i venti
minuti. Procedendo così ci rendevamo conto che stavamo scoprendo un linguaggio.
Anche se potrebbe sembrare un lavoro molto individualistico in realtà non lo è.
Perché attorno a uno spettacolo lavora tutta la gente che permette e mette in
condizione chi scrive, chi fa regia, chi sta in scena di fare questo. Io scrivo
il pezzo, ma capisco che il pezzo è completo quando ci sono una serie di
persone che partecipano alla realizzazione di quel pezzo: non è un romanzo!
E
il dopo Premio Scenario come sarà?
Scenario non ci mollerà mai, perché è
nel loro interesse curare gli spettacoli. Ma forse finché siamo dentro Scenario
siamo protetti, sembra che tutto sia possibile. Poi si esce e immediatamente
bisogna fare i conti con la realtà: con i direttori dei festival che non hanno
i soldi, con i teatri che hanno paura di investire in una giovane compagnia.
Questo è un problema con il quale mi sto confrontando molto in questo periodo:
perché finché c’è Scenario ci sono state delle date, degli spettacoli da poter
vendere, delle persone vere a cui farlo vedere, ma poi come fare per diventare
professionisti? Come diventare respondabile della propria professione? Queste
sono le cose sulle quali una compagnia nelle nostre condizione deve cominiciare
a ragionare.
E
dopo InFactory? Quali sono i progetti per il futuro?
L’adattamento cinimatografico di
InFactory, al quale sto già lavorando e che sarà completamente un’altra cosa:
altri corpi che raccontano con una voce off tratta dal testo, ma nel Parco
Nazionale del Gargano, riportare degli elementi che fanno parte dello
spettacolo, ma pensando di coinvolgere anche persone del posto. È come se
potesse precedere InFactory o seguirlo. E poi abbiamo il fumetto da pubblicare.
Recensione
Due
passi sono: un candido
balzo verso la felicità
di Rossella Menna
Un ritaglio di pavimento a scacchi. Due sedie
colorate. Un filoncino di pane, un blister di pillole-cibo, giornali. Un fiore
di velluto il cui gambo può essere allungato all’inverosimile. Una lampada, un
cuscino.
Due
passi sono, per balzare fuori dalla scatoletta in cui vivono
Pé e Crì. Due passi per uscire da un
microcosmo in cui la natura non è che un fiore finto, in cui non si vedono le
stelle, in cui abbracciarsi non si può perché non è igienico e accarezzarsi
diventa un’operazione che necessita di guanti sterili, in cui per sposarsi non
si deve andare in chiesa ma in banca. Ma se è vero che dai diamanti non nasce
nulla, e che non si può apprezzare un mare che si muove se non lo si è visto
prima da lontano piatto e privo di vita, allora il carillon che imprigiona i
due piccoli amanti è una soglia, un’anticamera della vita vera in cui è
possibile immaginare lunghe braccia che conducano fuori mani libere di toccare
e in cui si sogna un figlio e un cane.
Due passi sono per “sognare davvero”,
per infilarsi scarpe riposte da tempo e attraversare la soglia della felicità,
per tirare fuori da un cuscino un velo bianco e un abito da sposa e scambiarsi
inedite promesse d’amore al gusto di poesia.
Uno spettacolo delicatamente ironico. Minuto e
perfetto come una bambola di porcellana dal viso levigato. La coppia Carullo-Minasi racconta la rivincita di
chi, pur avendo visto la morte, si è tuffato nella vita. Una vera rarità nel
teatro del pessimismo. Meritatissimo dunque il “Premio Scenario per Ustica 2011”
che si sono aggiudicati i due artisti messinesi.
Il racconto di
Carullo-Minasi per Voci dalla Soffitta
Due passi
sono prima e dopo Premio Scenario
di Cristiana
Minasi e Giuseppe Carullo
Il nostro incontro risale a circa sei anni fa
a Messina, avendo collaborato entrambi con due compagnie di ricerca della
città. Così, ci si è cominciati a frequentare in teatro e in quei suoi dintorni
fatti di parole e poesia; così, per gioco ed incanto, si è cominciato a
disquisire e a valorizzare l'uno la poetica dell'altro, a condividere desideri
e voglie reciproche. Dopo diverse esperienze comuni –tra cui Fragile di Tino
Caspanello- e gli instancabili confronti per i diversi spettacoli insieme visionati,
è nata l’idea di elaborare un possibile gusto condiviso da mettere al più
presto in "atto".
Per Due passi sono, prima nostra
vera opera, siamo stati mossi dalla forte necessità di concretezza, di
riscattare la voglia e la forza di essere vivi. Volevamo, tramite il limite in
cui ci siamo trovati immersi per uno stato di momentanea difficoltà fisica di
Giuseppe, raccontare l'indescrivibile forza di cui è portatore l'uomo. Più che
per concetti, abbiamo avuto l'intuizione di operare per giochi di relazione, d'
improvvisazione scenica che, poi, hanno costituito la base di elaborazione del
testo.
In tal senso è stato fondamentale, oltre che
estremamente formativo, il percorso di elaborazione
del lavoro per tramite delle tre fasi di Scenario. Il premio “obbliga” ad una
continua messa in discussione del
materiale: passare dai 5 ai 20 minuti sino al raggiungimento della definizione
dell’intero spettacolo, significa sorprendersi di continuo circa le
potenzialità di un percorso che, se sinceramente vissuto come tale, deve nutrirsi
dei principi del processo e non dei principi meramente risultativi. Abbiamo
proceduto per sottrazione: più si è tolto, più ci è stato restituito dalla
logica intrinseca allo spettacolo medesimo. In tal senso, nonostante si fosse partiti
dal tema della malattia, della quotidianità
patologizzata in vista di un’ipotetica salvezza fatta di prescrizioni e
negazioni, lo spettacolo è misteriosamente
-quasi per opposizione- approdato
ai temi dell’amore, della creazione, della libertà, della conoscenza,
del potere desiderare nonostante l’apparente impossibilità.
I molteplici confronti con la giuria, con gli
spettatori dei 20 minuti della finale di
Santarcangelo, con il pubblico che ha visionato al Franco Parenti la prima
dello spettacolo intero, con i giornalisti, con le interviste post spettacolo
di questa attivissima tournée, hanno fatto sì che lo spettacolo crescesse
sempre e di più non tanto nella forma, ma nei contenuti. Al livello orizzontale
della vita/non vita dei due protagonisti,
si è reso necessario aggiungere una linea verticale “filosofica/clandestina”
che creasse un congiungimento con le vicende dell’amore. Prendendo in prestito
l’immagine della scala infinita del Simposio di Platone, il nostro testo passa
in rassegna - frammento per frammento, scalino per scalino- piccoli ma infiniti
varchi di luce, molecole di polvere di stelle che illuminano dando luogo,
forma, diritto e giustezza all’aspirare ad un percorso di conoscenza condiviso.
Amore non è vicenda personale tra due, sia pure formalmente appaia come tale,
ma è vicenda universale, che deve attenere poeticamente ciascun uomo.
Quanto alla nostra vittoria di un premio
dedicato all’impegno civile, è motivo di
grande orgoglio poter avere fatto coincidere il nostro impegno autorale con
l'impegno del risveglio delle coscienze. Crediamo che solo questa sia la strada
possibile in un'era quale la nostra, volta all'aggregazione acritica e al
disconoscimento dell'attività del pensiero. Il teatro altro non è che impegno
civile, il nostro è il più bel premio che il teatro ci poteva consegnare. Il
teatro è per tutti, il teatro è di tutti.
Questo spettacolo è un inno alla semplicità, vuole
glorificare la vita e lo fa parlando del desiderio. Ma figlio di questo
spettacolo non è il desiderio dell’effimero, della cruda materia ma il desiderio
fatto di valore, di quel valore unico che è la vita. Amore è creazione: ci son
mille modi di creare, bisogna a ciò educarsi, bisogna trarre insegnamento dalla
vita per giustificare la vita stessa, di ciascuno, per tutti.
È solo in questa
direzione che stiamo compiendo il passo per la prossima produzione.
Recensione
Ritagli pop del bel paese
di Rossella Menna
Continua
nel, solco già tracciato dalla coppia Carullo-Minasi e dal Teatro Stalla di
Matteo Latino, la rassegna di spettacoli presentati in vari spazi teatrali bolognesi,
nell’ambito del progetto Interscenario,
che vede protagonista, per il terzo appuntamento, sul palco dei laboratori Dms,
L’italia è il paese che amo, della
compagnia ReSpirale Teatro. Lo
spettacolo, che ha guadagnato una segnalazione speciale al Premio Scenario
2011, prosegue, infatti, la riflessione già avviata, in forme molto diverse,
dalle altre due formazioni, sull’inadeguatezza della società in cui questa
generazione di giovani si trova a vivere. Questa pièce, nello specifico, è una
denuncia fortemente politica di un senso di spaesamento che opprime le nuove
leve, costrette a una corsa sfrenata alla ricerca di qualche certezza cui
aggrapparsi, che le intrappola in una fissità ancora più radicale.

La barricata di cuscini che accoglie il pubblico,
metafora dichiarata del Muro di Berlino, ma anche di barriere metafisiche di
qualsivolgia tipologia, cade quasi subito, infranta con entusiasmo dai quattro
attori che vi erano intrappolati. Un entusiasmo destinato a spegnersi
rapidamente perché lo sfondamento del simbolo di un’epoca ritenuta ormai superata
non si traduce nel radicale cambiamento sociale in cui si sperava. «Si cambia
faccia, si cambia colore. Tutto cambia perché tutto resti com’ è». È da questa
riflessione, dal sapore già noto, che parte lo spettacolo del giovane gruppo
bolognese.
Una messa in scena pseudo-dadà, in cui, da un
cappello immaginario riempito di citazioni dell’Italia anni ’90, la regista, Veronica Capozzoli, pesca alla rinfusa
frammenti ritagliati da tanti giornali diversi e li incolla, così come saltano
fuori, sulla tela bianca del palcoscenico.
La metafora non è azzardata dal momento che lo
spettacolo è proprio un collage multiforme di ritagli pop accostati per
contrasto, senza alcuna linearità narrativa, e riempito da personaggi solo
abbozzati, privi di tridimensionalità.

La scena è un frullatore a pieno ritmo che macina e
rigurgita rapidamente un’immagine dietro l’altra. È un’infilata di luoghi comuni,
dove la crisi dei partiti e il Craxismo s’intrecciano alla musica della soap
opera Beautiful. Dove alla
riflessione su Tangentopoli, segue una famiglia tipo, con tanto di madre che si
spalma la crema alle mani, stravaccata sul divano e imbambolata di fronte alla
televisione. E ridono, tutti, da copione, insieme a risate registrate.
L’esultanza per un gol della nazionale di calcio sulle note di Notti magiche, il rumore delle bombe, la
voce da telegiornale che racconta la guerra in Medioriente, e quella di Falcone
che apre uno spiraglio alla speranza. E poi una palestra immaginaria per il
fitness frenetico di automi sorridenti votati al culto imposto dell’estetica
perfetta, trasformata, in un rapido cambio di scena, nello studio del noto quiz
“Ok il prezzo è giusto”. Immancabile la scena della discoteca. Simbolo estremo
dell’alienazione moderna, ospita un singolare dj-vocalist che incita le
sfrenate danze con slogan da comizio e parole rubate a Berlusconi. E per concludere, una canzone di Nino
D’Angelo a fare da sfondo a un’inquietante Macarena ballata da corpi anonimi
coperti in volto da maschere animali.

A puntellare qua e là la rapida sequenza visiva,
alcuni squarci lirici: piccoli monologhi infarciti di retorica, amplificati da
un microfono bene in vista, che rivelano tutta l’intenzione politica dello
spettacolo.
Uno spettacolo che, pur reso piacevole da alcune
originali invenzioni, vacilla sotto il peso dell’ingenua costruzione registica
e dell’evidente acerbità di un progetto tenuto insieme, per un pelo,
dall’urgenza espressiva di quattro giovani interpreti, i quali lasciano
intravedere, in ogni caso, serie possibilità di evoluzioni future.
Recensione
Spic
& Span
di Foscarini-Nardin-D’Agostin: manichini danzanti di colori pop
di Enrico Rosolino
“Non facciamo pubblicità occulta, provate a vederci
da vicino!”. I Teatri di Vita
offrono spesso interessanti sorprese a un pubblico curioso e aperto. Un titolo
insolito campeggia in questa piovosa metà di aprile sul cartellone informatico
del teatro: Spic & Span. No, non è uno scherzo! Lo spettacolo tende sin
dal suo inizio a farsi portavoce di quella forza propulsiva riconosciuta al
notissimo detersivo inventato dall’americana Elizabeth McDonald e cioè “tirare
a lucido”: lo spazio e la danza con le loro esigenze. Tre ottimi danzatori-
performar, i giovani Francesca Foscarini,
Giorgia Nardin e Marco D’Agostin, riempiono concretamente la
scena con i lori corpi vigorosi e sapientemente agili. La loro giovinezza
imprime all’intera visione un gradevolissimo impatto. Il candido palcoscenico
funge da abbagliante set fotografico, ma il sentimento estetico va a collocarsi
nell’uso traslitterante di una sgargiante moltitudine di colori pastello:
svuotanti negli abiti alla moda dei tre danzatori, liberatori come bolle di
sapone scaturite da un mondo di pensieri e sensazioni inespresse nei palloncini
che gonfiati dai tre vengono lasciati impietosamente sgonfiare in lunghi
ghirigori per aria.

Tre corpi belli e dinamici, narcisisticamente devoti
al voyeurismo, e incredibilmente aizzati negli atteggiamenti e nelle pose
divistiche si esibiscono in un divertissement
nevrotico ed esagitato di movimenti. La materialità del loro moto scaturisce da
auto costrizioni e impulsi del tutto esterni e votati a una resa esteticamente
graziosa e ciò si palesa in ogni parte della “narrazione” coreografica: così
nella rocambolesca dimensione – nella forma di una concitata toletta – caratterizzata
da verticalismo parallelo al terreno, come nella ricercata dimensione “intermedia”
(tra l’inginocchiato e il seduto) che da un lungo canone di spaccate laterali e
camminate sui glutei - all’indietro e in posizione a squadra - sviluppa poi un
inviluppante orgiastica serie di abbracci e sovrapposizionamenti plurimi. Infine,
nella spiccante fase verticale dominata com’è dai vertiginosi grand developpé che aprono ulteriormente,
e sempre più ritmicamente, le tre belle figure e dallo scalpiccio della
corsetta nervosa (come individui stressati nelle loro pregevolissime routine
lavorative) in girotondo associato, idealmente, ai conseguenti movimenti di
braccia simili ad applausi, prima ridicoli e quasi isterici poi strategicamente
cool.

La vita sussultoria e tormentata dei tre bellissimi in scena deve essere,
per esigenze di marketing tirata ulteriormente a lucido, e non basta
l’imposizione rigorosa e quasi brutale di una serie di movimenti ancora a terra
accompagnati da una distorta marcia militare. Non è lecito intravedere un
disagio psicologico tra le pagine patinate di un fascinoso servizio d’Haute
Couture. Ecco dunque materializzarsi il nostro miracoloso detersivo che viene
ingurgitato nervosamente e a canone (quasi fosse una coreografia da balletto
classico) a lunghi e grandi sorsi dai nostri spossati, e sempre più svuotati, manichini
danzanti. La ricercata pulizia e perfezione pare esser stata ritrovata. Lo
stato di abnegazione al deteriorante ordine da esaurimento nervoso però conduce
a un importante risultato reattivo. La vacuità si disperde; è nell’abbandono
trascolorato di una penombra (fino a quel momento sconosciuta) che i tre, pur
mantenendo un ricordo di ciò che sono e vivono, iniziano a intravedere scorci
introspettivi di sé stessi. Dalle psicosi rotondeggianti, quasi rantoli
pre-morte, nei movimenti sul fondo della scena, asserviti al clavicembalo
elettronico di Matthew Herbert
segue un intenso momento di riflessione corporeo-coreografica. Alle rapidità
post-futuriste di un esterno sordo si contrappone l’immagine post-moderna di un
dilatato movimento volto allo smascheramento. I tre danzatori, composti in
triangolo, sfilano gli occhiali da sole che per tutto il tempo hanno nascosto i
loro occhi e dunque la loro recondita interiorità. E ci guardano. Loro ci
vedono e noi li vediamo (interamente, finalmente).

Il contrappunto musicale sembra inserire queste tre
avvenenti corporature in altrettanti paesaggistici scorci d’umanità. Dai Tullipan del noto terzetto vocale
femminile Lescano alla tribal house elettronica la descrizione dei danzatori si
appiglia e accapiglia con la fenomenologia del trascorso, ritrovato e perso dell’umanità.
Giorgia Foscarini con il suo caschetto biondo, le labbra in rosso fuoco da
rossetto l’Oréal a lunga tenuta, e i fascianti occhiali da sole a mascherina
appare vagamente emula della Lady Gaga del Pop. D’Agostin spicca per la sua
longilinea prestanza e per il suo ottimo amalgamarsi, e al contempo risaltare,
tra le co-interpreti. Francesca Nardin, seppur anche lei interessante e validissima
nella resa coreografica, appare tuttavia poco appariscente nell’ambito delle
tematiche portate avanti dalla performance. Sono comunque tre giovani talenti
tumultuosi, ci aspettiamo buone nuove.