Josella Calantropo
sabato 26 novembre 2011
Roberto Latini: un po' storico e un po' veggente di sé stesso
Una chiacchierata con Roberto Latini della Compagnia Fortebraccio Teatro: gli abbiamo chiesto di guardare al suo passato e poi di proiettarsi nel futuro, di essere un po' storico e un po' veggente. Ci parla della direzione-artistica del teatro San Martino di Bologna e del suo programma NOOSFERA. Legge per noi il monologo di Edoardo De Filippo È cosa e' niente...
mercoledì 23 novembre 2011
Tre atti unici di Pinter messi in scena da una folle compagnia: Nanni Garella e i suoi attori
Un parlatoio dove non si può parlare, un “dentro”
che sembra un “fuori”, una festa che sembra un funerale, una giustizia
fortemente ingiusta. Sono il Linguaggio
della montagna, Il bicchiere della
staffa, e Party time, tre atti unici di Harold Pinter: genio dell’assurdo, del paradosso, di una
quotidianità mostruosamente ripetitiva, di spazi chiusi che soffocano e che mai
consolano e di uomini e donne che viaggiano sulla sottile linea di una tragica
follia. Tre pezzi di teatro che mettono in scena il potere autoritario,
insolente e indecente, un potere deteriorato dalle sue stesse strutture. Un
potere che comanda uomini e donne che hanno ormai perso la loro dignità di
esseri umani perché allontanati dal mondo e rinchiusi in una realtà parallela
dove le regole sono fatte a immagine e somiglianza di carcerieri-secondini
violenti, cocainomani e puttanieri. Ma niente paura, questo è solo teatro, è
finzione. Sono solo gli attori dell’associazione Arte e Salute diretti dal regista Nanni Garella. La società vera, quella fatta da persone
rispettabili, non si sognerebbe mai di rinchiudere altri individui in un
manicomio o in un carcere, con il solo e unico obiettivo di allontanarli dalla
comunità perché ritenuti pericolosi per sé e per gli altri.
Per il decimo anno consecutivo il progetto di Nanni
Garella prosegue nel suo scopo: coniugare il lavoro artistico con il lavoro nel
campo della salute mentale. «Il vissuto
della sofferenza psichiatrica – afferma
il regista – si versa nei personaggi teatrali e nelle opere come una linfa
vitale; problematica, dolorosa, rischiosa, ma pronta a trasformarsi in pura
gioia estetica e in realistica rappresentazione della realtà. La dimensione
della vita quotidiana di milioni di persone emarginate e sofferenti, quella
relegata fuori dai circuiti dell’arte e del teatro della società di oggi, è
piena di racconti, di sogni, di progetti. Usarli come materia di studio e
portarli sulla scena è il nostro obiettivo».
Nella sala Interaction dell’Arena del Sole la scena è già aperta. Mentre il pubblico prende
posto sono già ben in vista alti muri di cemento armato che ricordano quelli
esterni di un carcere di periferia. Tavoli e sedie sono allineati come in un
parlatoio. Si comincia con Il discorso
della montagna. Un gruppo di donne è venuto in visita a trovare i propri
uomini: mariti, figli, fratelli. Le guardie non sembrano farsi scrupoli. Le
loro maniere non sono esattamente quelle di chi vuole mettere a proprio agio
chi ha già un fardello da sopportare. La scena si apre con una quotidianeità
che sembra ripertersi sempre uguale ogni volta. Le donne sanno già che dovranno
subire le angherie delle guardie prepotenti. Ma l’assurdo è una piccolissima
regola dettata dal potere: in quel luogo non si può parlare il linguaggio della
montagna, si deve parlare con la lingua della città. Bisogna poter controllare
i discorsi privati per garantire la sicurezza. Ma una donna anziana in vistita
da suo figlio non riesce ad aprire bocca, non riesce a parlare, vorrebbe dire
ma non può, sa usare solo il suo dialetto e questo non va bene. E se anche alla
fine cambiassero le regole, cosa ci sarebbe da dire difronte a un figlio
ammanettato e in preda alle convulsioni?
Si continua con Il
bicchiere della staffa. È la storia di un folle interrogatoio. Un uomo alla
scrivania provoca con domande che non portano a niente un altro uomo seduto al
centro della scena con il volto insanguinato e pieno di lividi. Sono domande
che servono solo a capire la personalità di chi le pone, non sono domande fatte
per creare un dialogo. Non servono per ascoltare l’altro. In compenso si
possono udire da lontano le urla strazianti di una donna, moglie del
prigioniero, che viene violentata e picchiata. Tutto quel blaterare della
guardia-potere viene sopraffatto dal silenzio del carcerato e dalla sua
espressione di impotenza.
E si conclude con Party time. Una serata con musica spasmodica, gente ben vestita,
faccie sorridenti, bicchieri in mano che gesticolano frasi fatte. Una festa da
palazzo. Con il potere militare che va a braccetto con quello politico e tutti
vanno d’accordo con ballerine e soubrette. Un ambiente finto, fatto di apparenze.
Personaggi che presi a parte manifestano tutte le loro paure, insicurezze e
scheletri nell’armadio che non li fanno dormire. Ma the show must go on quindi è meglio affogare tutto nel
whisky e condire con qualche tiro di coca.


Josella Calantropo
lunedì 21 novembre 2011
Bollettino del diluvio universale e il naufragio della fantasia, di Gianni Celati
“Acqua,
e acqua, e acqua, che se va avanti così viene un diluvio universale come quello
dell’arca di Noè!”
L’acqua,
la vera protagonista di Bollettino del diluvio universale,
l’ultima creazione di Gianni Celati
che torna alla scrittura teatrale dopo la Recita
dell’attore Vecchiatto nel teatrino di Rio Saliceto, andata in scena all’ITC teatro di San Lazzaro di Savena
fino al 20 novembre.
Testo di non facile comprensione e interpretazione, ma realizzato sapientemente dal regista Nicola Bonazzi e dagli attori Eugenio Allegri, Micaela Casalboni, Lorenzo Ansaloni e Ida Strizzi, dovuto soprattutto a un accurato lavoro sul copione, sui movimenti dei personaggi e sulle musiche.
Nulla è stato lasciato al caso. Musiche di giostre e carillon, filmati di alberi all’incontrario e biciclette e uomini volanti, valzer, intercalano l’andare di questa pantomima, dove i personaggi, truccati come dei pupazzi, vivono ognuno imprigionato nella propria realtà, ognuno dietro al proprio tic, chiusi in un vecchio teatro di campagna. Numerosi i riferimenti alla storia teatrale europea: chiari i collegamenti con il teatro di Beckett, per la caratterizzazione a-psicologica dei personaggi (il dirigente in particolare, si presenta con il suo contabile Tarozzi, un burattino escrescenza della sua spalla, vestito esattamente come lui, di cui si libererà soltanto alla fine dello spettacolo), ma anche per l’attesa impaziente di questo dottor Giosuè che non arriva mai (pensiamo all’opera Aspettando Godot). E poi Kantor, per i suoi temi di continua precarietà umana, per la sua scenografia povera, ma piena di suggestioni, e per gli aspetti e le movenze dei personaggi, che però a differenza degli attori di Classe morta e di Wielopole-Wielopole sono sicuramente più comici e più riconducibili alla tradizione del teatro di piazza.

Credo che il messaggio del testo si possa evincere dall’ultima frase, pronunciata dal contabile Tarozzi (con la voce del dirigente), riguardante il naufragio del mondo dell’arte, della poesia, e della fantasia: “Tutto è all’ordine signori miei, e altro non ci resta da fare che aspettare l’arrivo del diluvio.” (G.B. Andreini, 1623).
Testo di non facile comprensione e interpretazione, ma realizzato sapientemente dal regista Nicola Bonazzi e dagli attori Eugenio Allegri, Micaela Casalboni, Lorenzo Ansaloni e Ida Strizzi, dovuto soprattutto a un accurato lavoro sul copione, sui movimenti dei personaggi e sulle musiche.
Nulla è stato lasciato al caso. Musiche di giostre e carillon, filmati di alberi all’incontrario e biciclette e uomini volanti, valzer, intercalano l’andare di questa pantomima, dove i personaggi, truccati come dei pupazzi, vivono ognuno imprigionato nella propria realtà, ognuno dietro al proprio tic, chiusi in un vecchio teatro di campagna. Numerosi i riferimenti alla storia teatrale europea: chiari i collegamenti con il teatro di Beckett, per la caratterizzazione a-psicologica dei personaggi (il dirigente in particolare, si presenta con il suo contabile Tarozzi, un burattino escrescenza della sua spalla, vestito esattamente come lui, di cui si libererà soltanto alla fine dello spettacolo), ma anche per l’attesa impaziente di questo dottor Giosuè che non arriva mai (pensiamo all’opera Aspettando Godot). E poi Kantor, per i suoi temi di continua precarietà umana, per la sua scenografia povera, ma piena di suggestioni, e per gli aspetti e le movenze dei personaggi, che però a differenza degli attori di Classe morta e di Wielopole-Wielopole sono sicuramente più comici e più riconducibili alla tradizione del teatro di piazza.
Non
a caso Celati chiama questo suo testo pantomima, spiega Bonazzi, “dal cui
repertorio bislacco il Bollettino recupera, reinventandola, la gestualità
parossisitica, l’idea di corpo in perenne movimento e in condizione di
precarietà, riportando in questo modo il mito alla tradizione del teatro di
piazza, che ha affidato la parte dei personaggi biblici ai pescatori, ai
bottai, agli artigiani”.
Uno
spettacolo capace di farci sorridere, ma anche di farci riflettere riguardo i
temi trattati, paurosamente attuali.
Credo che il messaggio del testo si possa evincere dall’ultima frase, pronunciata dal contabile Tarozzi (con la voce del dirigente), riguardante il naufragio del mondo dell’arte, della poesia, e della fantasia: “Tutto è all’ordine signori miei, e altro non ci resta da fare che aspettare l’arrivo del diluvio.” (G.B. Andreini, 1623).
Giulia Mento
sabato 19 novembre 2011
Molte cose sono in una cosa! Orazi e Curiazi e l’accademia degli artefatti
L’accademia degli artefatti sceglie di entrare nella rocca della drammaturgia di Bertolt Brecht passando dalla porta di servizio, e scegliendo, cioè, una cosiddetta opera minore: il dramma didattico Orazi e Curiazi del 1934.
Così facendo, gli artefatti evitano di cadere in una duplice tentazione: da un lato, quella di salire sul pulpito e predicare a gran voce le parole di opere più celebri che, proprio in virtù di tale notorietà, avrebbero forse rischiato di apparire eccessivamente roboanti in un contesto politico e sociale che, come il nostro, grida sguaiato il proprio sfacelo e il proprio fallimento; dall’altro lato, si rischiava di non riuscire a trovare un approccio attoriale convincente all’opera del drammaturgo tedesco.
Non a caso, quindi, la compagnia ha affrontato un testo che è “didattico” nella misura in cui, dice Brecht, ha “efficacia di insegnamento per i suoi interpeti”. Come dire che Orazi e Curiazi rappresenta un terreno sul quale l’attore, cercando di compiere quel percorso che conduce verso il celeberrimo straniamento, può acquisire la capacità di esercitare uno sguardo lucido e demistificato sul proprio mestiere ma, soprattutto, su quel mondo rispetto al quale, attraverso l’arte, è necessario agire.
E gli artefatti sono maestri di lucidità e volontà demistificatoria: il loro rapporto col testo (si pensi ai progetti sulla letteratura “postdrammatica” inglese) e con i meccanismi della rappresentazione sfocia in una modalità di recitazione, o faremmo meglio a dire di “comportamento scenico dell’attore”, chiaramente definita e originale. Si tratta, cioè, di un atteggiamento che coniuga dubbiosità, disincanto e ironia nei confronti di tutto ciò che si dice e si fa in scena, come per metterlo costantemente in discussione o, forse, per mostrarne la fatale importanza sotto una patina di amara giocosità: come non vedere in tutto questo un riflesso, un precipitato, un elemento di rimando rispetto alla poetica dello straniamento brechtiano?
Eppure tra la parabola teorico-artistica di Brecht e le sue riletture attuali esiste una distanza ineliminabile, vale a dire quella costituita dal crollo delle ideologie e dall’ingresso in un mondo che, quindi, ha irrimediabilmente perso la fede cieca nel sogno di un cambiamento radicale che animava il drammaturgo tedesco.
E’ il prologo di Orazi e Curiazi a raccontarci questa distanza, con la coltre di fumo che, come dopo un’esplosione, avvolge una sede anni ’60 del partito comunista (con tanto di manifesti in cirillico ed effigi di Lenin e Marx sui muri), mentre dei ricercatori verificano la presenza di tracce radioattive e si commuovono rinvenendo le bandiere dei Cobas o riascoltando l’Internazionale da un vecchio vinile.
Nell’afasia desolante dei relitti e delle maschere antigas, quindi, le parole non possono non provenire da lontano (Give me words canta un personaggio sbucato dal nulla, felpa con cappuccio calato sugli occhi e chitarra elettrica per accompagnare le note di In a manner of speaking dei Tuxedomoon), da un tempo e da un clima di cui non condividiamo appieno le speranze ma con il quale abbiamo ancora in comune miserie e sgomento.
Di fronte a un rispetto quasi filologico del testo, di cui si mantengono anche le didascalie e si seguono alcune indicazioni di allestimento (tracciare a terra i percorsi compiuti dagli attori piuttosto che fare riferimento al teatro cinese, incarnato da una figura femminile vestita da gheisha che assume il ruolo di arbitro della contesta), la messa in scena trasforma la lotta fra gli Orazi (di Roma) e i Curiazi (di Albalonga, l’odierna Albano) in una sorta di gioco televisivo a squadre con tanto di scansione in match e di indicazione del punteggio sulla lavagna (proprio una lavagna di scuola, quasi in omaggio al carattere didattico della pièce e a quel sottotitolo “rappresentazione per le scuole” che l’accompagna).
Ma è sul fine ultimo del gioco che bisogna concentrarsi: sia che si tratti di denaro, premi di varia natura o, semplicemente, dell’onore della vittoria, non ci si scontra mai per veder messo in pratica un progetto, un ideale, un’aspirazione. Ecco perché i giocatori sembrano finiti lì quasi per caso, desiderosi di vincere ma poco disposti al sacrificio e alla fatica (perché dovrebbero sacrificarsi in fondo, se non c’è un’Idea a cui valga la pena di votarsi?), protagonisti di imprese che oscillano tra il nonsense e un’arguzia dai risvolti di genialità: è così che, tra profondo senso comico e convenzionalismo teatrale, una ferita mortale si cura con un cerottino applicato sulla punta del dito, l’avventurarsi del lanciere tra rapide e dirupi diventa una specie di balletto in impermeabile giallo e galosce e lo scontro fra gli arcieri è deciso da due frecce fosforescenti e rigorosamente munite di ventosa.
Sullo sfondo, in sordina, la piaga di una corruzione che si insinua a colpi di valigette piene di soldi aperte a cascata sulla testa del corrotto, e che viene celebrata in pranzetti intra-schieramento a base di porchetta e di manciate di spaghetti in stile Miseria e Nobiltà.
E come cammei, sospesi tra grottesco e lirismo, emergono le parole delle vedove dei fratelli uccisi, interpretate da Francesca Mazza che, portavoce di ardore e di dolore (con il sottofondo degli sghignazzi dei suoi compagni), permette a un riflesso di sentimento e di buon senso di insinuarsi perfino nella macchina disumanizzante del gioco a premi, con un’insorgenza del sentimento che, seppur sghemba, nemmeno il Brecht delle opere maggiori era riuscito ad arginare del tutto.
Ma la ridda ossessiva di cambi d’abito, viaggi su poltrone girevoli, scheletri in armatura e corse per accaparrarsi il microfono, sta in piedi solo grazie alla costante presenza a sé stessi di tutti gli attori, a quella capacità di diventare sì ingranaggi perfetti di una regia dai ritmi spesso schizofrenici, ma senza perdere nemmeno per un istante quell’anelito allo sbeffeggio di tutto ciò che accade attorno: un “prendersi gioco” tanto manifesto da divenire irritante, perché è al rovesciamento della voglia di ridere che lo spettacolo vuole e deve arrivare, proprio quando anche lo spettatore più snob e serioso ha calato le difese e si è abbandonato alla risata.
Tuttavia il riso non può essere la strategia e non dobbiamo arrenderci di fronte a quello che accade nell’ultima scena, che vede Orazi e Curiazi tutti di fronte alla lavagna, interrogati sulle proprie azioni uno alla volta come tanti scolaretti somari.
Basta ridere, basta evitare di schierarsi attraverso l’arma legalizzata dello sberleffo: è il momento di crescere, prendere una posizione e far prosperare “campi e officine”. Senza sghignazzi e con sacrificio. Ma anche con il coraggio della fiducia.
Giulia Taddeo
venerdì 18 novembre 2011
"Arte e salute" scuote le coscienze con Pinter
Dal nove novembre al ventisette dello stesso mese la
sala Interaction dell’Arena del Sole accoglie il suo pubblico nelle viscere di
un vecchio penitenziario, tra tavoloni di legno grezzo e sedie legate a un tempo
che ormai non c’è più.
Qui, fra mura risuonanti di musiche di un'altra epoca e grida disumane, rivive il genio poetico di Pinter e rivive negli sguardi attenti e nei gesti caldi di umanità degli attori di Arte e salute, associazione nata con lo scopo di unire due mondi tenuti ben lontani dalla società odierna: il meraviglioso dell’arte teatrale e l’oscuro della sofferenza mentale. Il progetto porta la firma di Nanni Garella, da più di dieci anni impegnato nel promuovere la collaborazione tra la compagnia di pazienti psichiatrici e lo stabile bolognese; sua è la regia di questo spettacolo nato dai tre atti unici di Pinter: Il linguaggio della montagna, Il bicchiere della staffa e Partytime, tre storie che hanno al centro la violenza dittatoriale, l’abnegazione al potere, i soprusi e le ingiustizie che si riversano sugli uomini che non rispettano la legge della società, i suoi codici disumani e i suoi gesti senza pietà e in conclusione si riversano nell’assurdo tentativo di ubriacare tutto questo in un ebbrezza dionisiaca che abbaglia l’uomo e lo rinchiude nel club del losco servilismo autoritario.
Un mondo dittatoriale che tuttavia cela un messaggio di speranza, una filantropia ancora resistente ai miasmi del male umano. E qui nasce la dimensione magica di questo spettacolo: la vivida interpretazione degli attori, specchio di una dimensione privata ben conosciuta da ciascuno di loro, arricchisce la recitazione di un viaggio interiore e la riflette nella messa in scena di testi mai troppo lontani dal reale, dalla loro esperienza. Tutto ciò permette allo spettatore di respirare aria fresca al di là dei muri di cemento armato, gli permette di cogliere un barlume di luce che di volta in volta illumina storie diverse, ferite interiori, pianti soffocati dalla società che vive “là fuori” e che deve rispettare l’imperativo di non vedere il veleno che agisce su essa. Tra sofferenze e sopraffazioni, le vittime conservano ancora il loro essere umani e si battono per portare avanti sguardi, piccoli movimenti, discorsi sussurrati, addirittura diritti umani oltre il fil di ferro del regime autoritario. Tutto questo è intessuto sulla base dell’esperienza privata degli attori: la loro recitazione si nutre delle loro piccole vittorie sul dolore, della difficoltà di entrare a pieno titolo in un circuito teatrale che, con anni di studio e di ricerca, ha portato in scena in tutta Italia testi intrisi di emarginazione, di sacrificio ma anche di fiducia, di speranza, di poetica dell’amore umano. Racconti di vita vera, racconti della loro vita.
Qui, fra mura risuonanti di musiche di un'altra epoca e grida disumane, rivive il genio poetico di Pinter e rivive negli sguardi attenti e nei gesti caldi di umanità degli attori di Arte e salute, associazione nata con lo scopo di unire due mondi tenuti ben lontani dalla società odierna: il meraviglioso dell’arte teatrale e l’oscuro della sofferenza mentale. Il progetto porta la firma di Nanni Garella, da più di dieci anni impegnato nel promuovere la collaborazione tra la compagnia di pazienti psichiatrici e lo stabile bolognese; sua è la regia di questo spettacolo nato dai tre atti unici di Pinter: Il linguaggio della montagna, Il bicchiere della staffa e Partytime, tre storie che hanno al centro la violenza dittatoriale, l’abnegazione al potere, i soprusi e le ingiustizie che si riversano sugli uomini che non rispettano la legge della società, i suoi codici disumani e i suoi gesti senza pietà e in conclusione si riversano nell’assurdo tentativo di ubriacare tutto questo in un ebbrezza dionisiaca che abbaglia l’uomo e lo rinchiude nel club del losco servilismo autoritario.
Un mondo dittatoriale che tuttavia cela un messaggio di speranza, una filantropia ancora resistente ai miasmi del male umano. E qui nasce la dimensione magica di questo spettacolo: la vivida interpretazione degli attori, specchio di una dimensione privata ben conosciuta da ciascuno di loro, arricchisce la recitazione di un viaggio interiore e la riflette nella messa in scena di testi mai troppo lontani dal reale, dalla loro esperienza. Tutto ciò permette allo spettatore di respirare aria fresca al di là dei muri di cemento armato, gli permette di cogliere un barlume di luce che di volta in volta illumina storie diverse, ferite interiori, pianti soffocati dalla società che vive “là fuori” e che deve rispettare l’imperativo di non vedere il veleno che agisce su essa. Tra sofferenze e sopraffazioni, le vittime conservano ancora il loro essere umani e si battono per portare avanti sguardi, piccoli movimenti, discorsi sussurrati, addirittura diritti umani oltre il fil di ferro del regime autoritario. Tutto questo è intessuto sulla base dell’esperienza privata degli attori: la loro recitazione si nutre delle loro piccole vittorie sul dolore, della difficoltà di entrare a pieno titolo in un circuito teatrale che, con anni di studio e di ricerca, ha portato in scena in tutta Italia testi intrisi di emarginazione, di sacrificio ma anche di fiducia, di speranza, di poetica dell’amore umano. Racconti di vita vera, racconti della loro vita.
Elvira
Scorza
domenica 13 novembre 2011
Il nuovo nō: continuità di discontinuità
La tavola rotonda
Un progetto ricco e articolato come quello che il CIMES ha pensato per aprire le porte dell’Università di Bologna e della città al Teatro Nō, doveva necessariamente prevedere una tavolata di discussione coinvolgendo storici, studiosi, drammaturghi, registi e attrici: Monique Arnaud, Giovanni Azzaroni, Matteo Casari, Doi Hideyuki, Lidya Origlia, Bonaventura Ruperti, Umewaka Naohiko.
Un pomeriggio passato in compagnia di donne e di uomini che ci hanno raccontato il loro modo di fare teatro, cercando di mettere in relazione mondi, tra di loro, apparentemente molto lontani. Un pomeriggio trascorso sulla sottile linea che divide Occidente e Oriente, mondo interiore e mondo esteriore, tradizione e contemporaneità, teatro e vita, natura e immaginazione, esperienza e memoria, continuità e discontinuità.
Ci si interroga su un teatro che nonostante sia
codificato come teatro di tradizione, vede al suo interno svilupparsi segni di
“possibili teatralità ulteriori” come ci ricorda Gerardo Guccini all’inizio dei lavori presente in qualità di
responsabile scientifco del CIMES. Portando i suoi saluti e l’approvazione del
lavoro svolto da Matteo Casari
curatore del progetto Teatro Nō, una
tradizione contemporanea, Guccini,
con la sua parlata accogliente e brillante, richiama l’attenzione dei molti
intervenuti su due spettacoli di Hirata Oriza (La conferanza di Yalta e Tokyo
Notes) presentati quest’estate al festival di Santarcangelo che presentavano
retaggi di teatro Nō sia a livello testuale e didascalico che determinati da
particolari costrizioni fisiche nei costumi
e nelle acconciature. Esemplificativi, quest’ultimi, di come le “dinamiche
del teatro contemporaneo hanno profondamente a
che fare con il retaggio della cultura Nō (…) uno sviluppo delle
drammaturgie occidentali che sempre più tendono a rapportarsi alle forme del
proprio passato come a luoghi di soluzione dell’immaginario da abitare, ma da
rideclinare a seconda delle esigenze e delle tematiche della sensibilità del
presente”.
L’intervento del maestro è tutto rivolto alla ricerca di questo confine tra mondo interiore ed esteriore tramite un metodo del quale naturalmente nessuno ha la formula magica e che neppure il Maestro ci svela, per il semplice e unico motivo che ognuno deve ricercare il suo.
Confini che esistono nella vita quotidiana e in teatro. “Il palcoscenico, luogo di particolare importanza per tutti gli uomini di teatro, è uno dei confini e l’azione che vi si svolge ha un doppio significato; in una situazione tale perciò un artista non può essere indifferente ai metodi che riguardano l’andirivieni sul confine perché se lo fosse non potrebbe mai creare quel momento magico sulla scena”.
Acquisire il metodo quindi con la ripetizione di semplici esercizi, anche se questo può risultare noioso. Acquisire il metodo dei confini affinché esperienze del passato vengano riprodotte nell’interiore. È possibile rifare l’esperienza di una cascata in una piccola sala adibita per la cerimonia del thè o più semplicemente accontentandosi del proprio bagno di casa: riprodurre interiormente l’emozione che ho provato realmente lì, immersi nella natura, indipendentemente dal luogo.
In breve potremmo definire il fenomeno come la riproduzione dell’emozione, il fatto importante è che non è più necessario avere la cascata davanti agli occhi. Il desiderio, concetto caro al buddismo zen, di imbattersi di nuovo in quella cascata.
L’importante non è immaginare la cascata ma andare un poco più in là dell’immaginazione, cioè nel limbo che trasforma l’immaginazione in esperienza.
Per applicare questo metodo alla rappresentazione teatrale cerco in genere di distribuire durante il fluire dell’azione una decina di momenti della riproduzione dell’emozione guidati dal metodo che conduce all’interiore”.
Bonaventura Ruperti dall’ Università di Venezia Ca’ Foscari, giunge al tavolo per farci fare una storica cavalcata mozzafiato tra i più importanti poeti giapponesi che si sono confrontati con la stesura di nuovi Nō. E il professore ci lascia con una serie di domande: “Il tema fondamentale che si doveva porre chiunque avesse a che fare con la creazione di un nuovo Nō era: cos’è il Nō? Il Nō è il Nō di sogno? Cioè la struttura del Nō, di questa forma per cui un viaggiatore incontra un personaggio poco noto e questo poi si rivelarà un personaggio del passato, uno spettro? Il Nō è poesia e danza? Oppure il Nō è soltanto l’estetica essenziale? O ancora il Nō è la maschera, l’uso della maschera e tutte le tecniche che per seicento, settecento anni sono state tramandate, tecniche non solo attoriali, ma coreutiche e musicali?
Il Nō può essere intepretato in vari modi e i grandi artisti ci sono riusciti utilizzando e traendo suggestioni che sono tuttora molto vive sulla scena”.
È Monique Arnaud dalla Shihan Scuola Kongō che conclude la giornata. Ma come a lei stessa piace ricordare: “le forme si modificano nella vita di un maestro, c’è una trasformazione continua, quindi più che una chiusura cercherò di fare un’apertura. Cosa che si addice al teatro Nō perché ogni nuovo titolo di Nō si chiude con un’apertura”.
Dopo un pomeriggio così, le domande potrebbero non finire mai, ma in tutta onestà non posso non rendervi partecipi dell’aneddoto del caffè preso dal maestro di teatro Nō e da un maestro di mimo.
È un breve scritto contenuto nella premessa del libro sul teatro Nō del maestro Umewaka Nahoiko: La fisicità nell’atto di prendere un caffè.
«Un maestro di Nō e un maestro di mimo stanno per prendere un caffè: che differenza c’è tra i due? Non avendo nessun sentimento particolare, non sono personaggi di una storia, non hanno alcuna scena su cui basarsi, ma comunque non possono fare un gesto quotidiano. Quindi il gesto semplice risulta molto complicato: non si può scadere nella banalità del quotidiano e non si può interpretare nessun personaggio. La cosa più semplice può risultare la più complicata.
Che differenza c’è quindi nell’atto di prendere un caffè sul palcoscenico tra i due maestri? Non oso raccontare le caratteristiche espressive del Nō attraverso un maestro analizzato nell’atto di prendere un caffè ma posso dire che il maestro di mimo cerca di far vedere l’invisibile come se esistesse davvero con capacità interpretative. Nel nostro caso però il caffè esiste davvero.
Allora la cosa più importante è: in che modo il maestro di mimo coniuga il gesto di prendere un caffè con la sua interiorità? Se ci pensiamo ci sono infiniti modi di prendere un caffè e, anche se sembra strano, è proprio qui che si trova il concetto di infinito. L’infinito non si trova nell’esteriore ma nel nostro interiore sotto forma di opzioni inesauribili. L’anedotto del caffè ci suggerisce come comprendere la fisicità del Nō. I gesti che ci rapiscono l’anima non sono mai vistosi. Tornare all’estrema semplicità è lo scopo ma questo è permesso solo ai maestri che hanno approfondito i segreti di questa forma teatrale. Per quanto riguardo l’aneddoto del caffè, la differenza tra i due maestri, rimarrà un segreto profondo».
Un progetto ricco e articolato come quello che il CIMES ha pensato per aprire le porte dell’Università di Bologna e della città al Teatro Nō, doveva necessariamente prevedere una tavolata di discussione coinvolgendo storici, studiosi, drammaturghi, registi e attrici: Monique Arnaud, Giovanni Azzaroni, Matteo Casari, Doi Hideyuki, Lidya Origlia, Bonaventura Ruperti, Umewaka Naohiko.
Un pomeriggio passato in compagnia di donne e di uomini che ci hanno raccontato il loro modo di fare teatro, cercando di mettere in relazione mondi, tra di loro, apparentemente molto lontani. Un pomeriggio trascorso sulla sottile linea che divide Occidente e Oriente, mondo interiore e mondo esteriore, tradizione e contemporaneità, teatro e vita, natura e immaginazione, esperienza e memoria, continuità e discontinuità.

A seguire la scena è tutta per il Maestro Umewaka Naohiko che per una settimana intera è stato ospite
dell’Università di Bologna e del Dipartimento DMS e che tramite attività
laboratoriali e dimostrazioni pratiche ha coinvolto un sostenuto numero di
studenti, ricercatori, docenti e appassionati.
Così il maestro Umewaka Naohiko ci racconta di un
episodio personale non di natura accademica e quindi non verificabile in senso
scientifico dal titolo: Passeggiata in
casa. Appunti di un attore No sul confine tra mondo interiore e mondo
esteriore.L’intervento del maestro è tutto rivolto alla ricerca di questo confine tra mondo interiore ed esteriore tramite un metodo del quale naturalmente nessuno ha la formula magica e che neppure il Maestro ci svela, per il semplice e unico motivo che ognuno deve ricercare il suo.
Confini che esistono nella vita quotidiana e in teatro. “Il palcoscenico, luogo di particolare importanza per tutti gli uomini di teatro, è uno dei confini e l’azione che vi si svolge ha un doppio significato; in una situazione tale perciò un artista non può essere indifferente ai metodi che riguardano l’andirivieni sul confine perché se lo fosse non potrebbe mai creare quel momento magico sulla scena”.
Acquisire il metodo quindi con la ripetizione di semplici esercizi, anche se questo può risultare noioso. Acquisire il metodo dei confini affinché esperienze del passato vengano riprodotte nell’interiore. È possibile rifare l’esperienza di una cascata in una piccola sala adibita per la cerimonia del thè o più semplicemente accontentandosi del proprio bagno di casa: riprodurre interiormente l’emozione che ho provato realmente lì, immersi nella natura, indipendentemente dal luogo.
In breve potremmo definire il fenomeno come la riproduzione dell’emozione, il fatto importante è che non è più necessario avere la cascata davanti agli occhi. Il desiderio, concetto caro al buddismo zen, di imbattersi di nuovo in quella cascata.
L’importante non è immaginare la cascata ma andare un poco più in là dell’immaginazione, cioè nel limbo che trasforma l’immaginazione in esperienza.
“Difronte alla cascata tutti i sensi erano a nostra
disposizione e si sono riuniti per farci percepire la meraviglia e la potenza
della cascata, ma a casa il procedimento è completamente diverso e possiamo
considerare che l’assenza della natura costituisce un vantaggio per noi:
cercare di controllare il funzionamento dei sensi riportandolo verso l’interiore.
Posizione immobile, nel silenzio non cerchiamo di sentire il vento o il flusso
dello scorrere dell’acqua, ci possiamo accontentare dello sgocciolamento del
rubinetto, il buio ci aiuta alla ricomposizione interiore della sensazione:
ognuno deve trovare il suo metodo.
In questa maniera cominciamo a riprodurre internamente la
stessa sensazione che abbiamo provato quando eravamo difronte alla cascata.
Questo stato d’animo durerà al massimo per dieci secondi e credo che sia
impossibile che duri più di un’ora. Per applicare questo metodo alla rappresentazione teatrale cerco in genere di distribuire durante il fluire dell’azione una decina di momenti della riproduzione dell’emozione guidati dal metodo che conduce all’interiore”.
Bonaventura Ruperti dall’ Università di Venezia Ca’ Foscari, giunge al tavolo per farci fare una storica cavalcata mozzafiato tra i più importanti poeti giapponesi che si sono confrontati con la stesura di nuovi Nō. E il professore ci lascia con una serie di domande: “Il tema fondamentale che si doveva porre chiunque avesse a che fare con la creazione di un nuovo Nō era: cos’è il Nō? Il Nō è il Nō di sogno? Cioè la struttura del Nō, di questa forma per cui un viaggiatore incontra un personaggio poco noto e questo poi si rivelarà un personaggio del passato, uno spettro? Il Nō è poesia e danza? Oppure il Nō è soltanto l’estetica essenziale? O ancora il Nō è la maschera, l’uso della maschera e tutte le tecniche che per seicento, settecento anni sono state tramandate, tecniche non solo attoriali, ma coreutiche e musicali?
Il Nō può essere intepretato in vari modi e i grandi artisti ci sono riusciti utilizzando e traendo suggestioni che sono tuttora molto vive sulla scena”.
È Monique Arnaud dalla Shihan Scuola Kongō che conclude la giornata. Ma come a lei stessa piace ricordare: “le forme si modificano nella vita di un maestro, c’è una trasformazione continua, quindi più che una chiusura cercherò di fare un’apertura. Cosa che si addice al teatro Nō perché ogni nuovo titolo di Nō si chiude con un’apertura”.
Dopo un pomeriggio così, le domande potrebbero non finire mai, ma in tutta onestà non posso non rendervi partecipi dell’aneddoto del caffè preso dal maestro di teatro Nō e da un maestro di mimo.
È un breve scritto contenuto nella premessa del libro sul teatro Nō del maestro Umewaka Nahoiko: La fisicità nell’atto di prendere un caffè.
«Un maestro di Nō e un maestro di mimo stanno per prendere un caffè: che differenza c’è tra i due? Non avendo nessun sentimento particolare, non sono personaggi di una storia, non hanno alcuna scena su cui basarsi, ma comunque non possono fare un gesto quotidiano. Quindi il gesto semplice risulta molto complicato: non si può scadere nella banalità del quotidiano e non si può interpretare nessun personaggio. La cosa più semplice può risultare la più complicata.
Che differenza c’è quindi nell’atto di prendere un caffè sul palcoscenico tra i due maestri? Non oso raccontare le caratteristiche espressive del Nō attraverso un maestro analizzato nell’atto di prendere un caffè ma posso dire che il maestro di mimo cerca di far vedere l’invisibile come se esistesse davvero con capacità interpretative. Nel nostro caso però il caffè esiste davvero.
Allora la cosa più importante è: in che modo il maestro di mimo coniuga il gesto di prendere un caffè con la sua interiorità? Se ci pensiamo ci sono infiniti modi di prendere un caffè e, anche se sembra strano, è proprio qui che si trova il concetto di infinito. L’infinito non si trova nell’esteriore ma nel nostro interiore sotto forma di opzioni inesauribili. L’anedotto del caffè ci suggerisce come comprendere la fisicità del Nō. I gesti che ci rapiscono l’anima non sono mai vistosi. Tornare all’estrema semplicità è lo scopo ma questo è permesso solo ai maestri che hanno approfondito i segreti di questa forma teatrale. Per quanto riguardo l’aneddoto del caffè, la differenza tra i due maestri, rimarrà un segreto profondo».
Alla fine di questa storiella è solo una la domanda che
mi rimbalza nella testa: qual’ è il mio modo di prendere il caffè?
Josella Calantropo
sabato 12 novembre 2011
Il backstage di The Italian Restaurant
Il laboratorio di Teatro Nō
organizzato da CIMES, dopo sei giorni di intenso lavoro, volge al
termine con lo spettacolo “The
Italian Restaurant”.
Quando il critico varca il limite dell'oggettivo, non guarda più gli eventi con distacco, si fa travolgere da una marea di emozioni, non è più critico.
Una voglia ghiotta di assaporare emozioni, lo ammetto!
Il desiderio di degustare coi ragazzi sconfitte e vittorie, in un tempo presente che fa da cornice a un mai più ripetibile.
Due
ore prima dello spettacolo, all'ingresso del teatro c'è Monica, la
protagonista, che esegue esercizi ginnici per distendere muscoli e
tensione.
Marianna,
la cameriera, va avanti e indietro per i palco, furiosa; ripete a
tutti che “i
segni di scothc sul palco per sistemare i tavoli non li vuole
ve-de-re, chiaro?!”Sergio, uno dei due samurai, è al telefono con qualcuno a cui ha riservato dei posti a sedere... eh eh eh, orgoglio d'attore!
E poi un animato vociferare proveniente dal palco: Lucia, Luca, Tommaso, Andrea, Fabio tentano espedienti per sincronizzare i movimenti della scena finale: propongono un'idea, la confutano, ne suggeriscono altre...
Hanno la situazione sotto controllo, dicono!
Oh,
ecco il Maestro!
“Grazie
ragazzi per la devozione con cui avete lavorato, per aver creduto in
questo progetto. Godiamoci questa serata, con calma, e ripensiamo a
questa settimana... splendida. Grazie.” Poche parole che rasserenano gli animi. Cosparge calma intorno a sé. Eppure fermenta il suo animo: vuole ancora riferire dettagli ai ragazzi, e poi cerca del cerone bianco per i Diavoli (alle 8 di sera!), e poi chiede un cucchiaio per la scena, e poi una lampadina per dietro e quinte, e la sistemazione dei tavoli! É tutto pronto, Maestro?
Quindici
minuti dal debutto: siamo tutti in cerchio.
Monica
ha tra le mani una stecca di cioccolato. Frammentare il dolce in
segno di condivisione di una stessa energia vitale; a
ognuno una piccola parte. E poi un profondo respiro, tutte le mani al centro, grinta ragazzi!
“Merda merda merda!”
Angela
Sciavilla
venerdì 11 novembre 2011
TEATRO NŌ, il corpo in scena tra continuità e discontinuità: THE ITALIAN RESTAURANT
LA RECENSIONE
10 novembre: il debutto
Laboratori DMS: ultimo giorno per gli studenti-attori del workshop sul teatro nō condotto dal Maestro Umewaka Naohiko.
La tensione è vibrante, le gambe sembrano dover cedere da un momento all’altro. E’ arrivato il momento del debutto.
La trama si infittisce: ci troviamo in un ristorante italiano o, forse, siamo i pazienti di una clinica psichiatrica? Umewaka Naohiko, con abilità registica, affida un ruolo, pur sempre marginale, al suo pubblico; per poi, estraniarlo dalla vicenda e restituirlo alla oscura anonimia della sala teatrale.
Subentrano altri personaggi: una cameriera con un “menù seducente”, un fantasma di donna seduto a un tavolo del ristorante italiano che aspetta di ordinare. Ogni portata è un momento vissuto e ri-vissuto, ogni bicchiere di vino è una data. I personaggi, rinchiusi nei loro drammi, bevoni sorsi della loro passata esistenza. Non hanno futuro, solo un passato infinito. Il pubblico reagisce: ride e si diverte, quando il testo lo richiede, e, con devota commozione, si unisce al profondo malessere dei personaggi. Il protagonista e il fantasma della donna si conoscono, si aspettano, rispettano i tempi l’uno dell’ altro, per poi perdersi. Seduti al tavolo, ordinano: la maschera impedisce al protagonista di bere e mangiare. La donna è la sua “carne ai ferri” e il suo calice di vino: non potrà averla, non potrà saziarsi di lei. La donna appartiene alla Morte. Un incendio al ristorante italiano. La donna esce di scena, non ritornerà più. Unico segno tangibile della sua presenza passata sarà un anello, affidato da un poliziotto alla sua migliore amica. Di fronte alla Morte e all’Infinito c’è bisogno di un filtro: la maschera, filtro drammaturgico, che consente al performer di vivere il personaggio, tra riso e pianto, cibo e veglia, continuità e discontinuità. Solo in maschera si può essere sinceri. L’attore protagonista, grazie alla maschera, è privato e liberato dal peso dell’espressione del volto. Sulla scena, un gioco di ombre e luci, di materie e spiriti. E’ il gioco della vita e della morte. E’ la vita che prende in giro la morte, è la morte che deride il suo opposto. Un gioco di prospettive: spettatori vivi tra i morti e fantasmi in scena che ri-vivono sempre gli stessi interminabili atti e non se ne rendono conto.
Un teatro che si muove tra antichità e innovazione, tra nuovo e vecchio. Il Maestro predilige il nuovo, il contemporaneo, senza però dimenticarsi della tradizione e della tecnica. Quello che chiama “ruolo del corpo in scena” o “cattività fisica”.
Si ricomincia daccapo.
I tavoli si moltiplicano, il protagonista cambia maschera. Il Maestro sembra proporci una “Ultima cena”, sotto nuove vesti. Oriente e Occidente, continuità di discontinuità, gli occhi fissi dei personaggi, una melodia annuncia un trionfo alla Morte, inchiostro rosso sgorga dalla maschera:
“L’io di oggi non è l’io di ieri” (Nishida Kitarō)
Postura retta, cascate di applausi. Gli attori hanno vinto l’ Io, il proprio, e l’Altro, lo spettatore. Hanno avuto rispetto del pubblico. In una sola parola: Respicio.
Angela
Grasso
10 novembre: il debutto
Laboratori DMS: ultimo giorno per gli studenti-attori del workshop sul teatro nō condotto dal Maestro Umewaka Naohiko.
La tensione è vibrante, le gambe sembrano dover cedere da un momento all’altro. E’ arrivato il momento del debutto.
The
Italian Restaurant, regia e testo di Umewaka Naohiko: una
scommessa psicologica, oltre che teatrale.
La sala è piena, i volti sono rilassati e piacevolmente stupiti. Fila C, un bambino dorme e si coglie il ritmo del suo respiro. Buio in scena. Si comincia.
Un gioco di tavoli, tovaglie bianche, calici da vino
e tre personaggi: una donna e due “samurai giapponesi”. Un letto. Cosa ci fa un
letto nel bel mezzo di un ristorante italiano? Ecco, il protagonista e la sua
maschera sbucarne fuori. La reazione del pubblico è dubbiosa, la signora nella
fila davanti parla, squilla un cellulare. Si legge, nei volti di tutti, uno spaesamento.
Sembrano domandarsi: Dove ci troviamo? Chi abbiamo di fronte? La sala è piena, i volti sono rilassati e piacevolmente stupiti. Fila C, un bambino dorme e si coglie il ritmo del suo respiro. Buio in scena. Si comincia.
La trama si infittisce: ci troviamo in un ristorante italiano o, forse, siamo i pazienti di una clinica psichiatrica? Umewaka Naohiko, con abilità registica, affida un ruolo, pur sempre marginale, al suo pubblico; per poi, estraniarlo dalla vicenda e restituirlo alla oscura anonimia della sala teatrale.
Subentrano altri personaggi: una cameriera con un “menù seducente”, un fantasma di donna seduto a un tavolo del ristorante italiano che aspetta di ordinare. Ogni portata è un momento vissuto e ri-vissuto, ogni bicchiere di vino è una data. I personaggi, rinchiusi nei loro drammi, bevoni sorsi della loro passata esistenza. Non hanno futuro, solo un passato infinito. Il pubblico reagisce: ride e si diverte, quando il testo lo richiede, e, con devota commozione, si unisce al profondo malessere dei personaggi. Il protagonista e il fantasma della donna si conoscono, si aspettano, rispettano i tempi l’uno dell’ altro, per poi perdersi. Seduti al tavolo, ordinano: la maschera impedisce al protagonista di bere e mangiare. La donna è la sua “carne ai ferri” e il suo calice di vino: non potrà averla, non potrà saziarsi di lei. La donna appartiene alla Morte. Un incendio al ristorante italiano. La donna esce di scena, non ritornerà più. Unico segno tangibile della sua presenza passata sarà un anello, affidato da un poliziotto alla sua migliore amica. Di fronte alla Morte e all’Infinito c’è bisogno di un filtro: la maschera, filtro drammaturgico, che consente al performer di vivere il personaggio, tra riso e pianto, cibo e veglia, continuità e discontinuità. Solo in maschera si può essere sinceri. L’attore protagonista, grazie alla maschera, è privato e liberato dal peso dell’espressione del volto. Sulla scena, un gioco di ombre e luci, di materie e spiriti. E’ il gioco della vita e della morte. E’ la vita che prende in giro la morte, è la morte che deride il suo opposto. Un gioco di prospettive: spettatori vivi tra i morti e fantasmi in scena che ri-vivono sempre gli stessi interminabili atti e non se ne rendono conto.
Un teatro che si muove tra antichità e innovazione, tra nuovo e vecchio. Il Maestro predilige il nuovo, il contemporaneo, senza però dimenticarsi della tradizione e della tecnica. Quello che chiama “ruolo del corpo in scena” o “cattività fisica”.
Si ricomincia daccapo.
I tavoli si moltiplicano, il protagonista cambia maschera. Il Maestro sembra proporci una “Ultima cena”, sotto nuove vesti. Oriente e Occidente, continuità di discontinuità, gli occhi fissi dei personaggi, una melodia annuncia un trionfo alla Morte, inchiostro rosso sgorga dalla maschera:
“L’io di oggi non è l’io di ieri” (Nishida Kitarō)
Postura retta, cascate di applausi. Gli attori hanno vinto l’ Io, il proprio, e l’Altro, lo spettatore. Hanno avuto rispetto del pubblico. In una sola parola: Respicio.
giovedì 10 novembre 2011
Teatro NŌ, una tradizione contemporanea: la quinta giornata di laboratorio al CIMES
8 novembre 2011
Ora si lavora sui dettagli dei movimenti, sulle intenzioni. Si ripete ogni scena una, due, tre, quattro volte, si cercano espedienti sempre più convincenti ed efficaci.
I passi sono giusti, i ritmi rispettati, ma qualcosa viene meno rispetto a ieri: l'energia!
Sanno bene che in scena ogni parte del corpo deve essere attiva, scattante;
sanno che bisogna preparare le emozioni prima della battuta;
sanno che i sentimenti devono intravedersi coi gesti e non solo con le parole;
e sanno che durante la performance il pubblico aspetta con ansia di essere stupito, trasportato in una dimensione surreale, ancora una volta “il confine”, tra il reale e la finzione. Accontentiamoli!
“È questione di good
feeling” ribadisce il Maestro. Oggi mancava, però.
Impegnati tutto il giorno in teatro, sotto pressione per i tempi ristretti, concentrazione costante sulle parole del Maestro, ripetitività dei movimenti, si rischia seriamente di scadere nella noia... sarebbe la fine!
Il trucco sta nel “saper ripetere tante volte la medesima scena, ogni volta con intenzioni diverse, con diversa espressività, la gente non si annoia”. Questo è Teatro Nō.
Il trucco sta anche “nell'unire ogni dettaglio sotto l'ala protettrice del protagonista”. Anche questo è Teatro Nō.
“Non è il nostro caso”- ribadisce il Maestro - “i dettagli non sono responsabilità solo del primo attore, bensì di ogni partecipante, coalizzati in un unico abiettivo: tendere alla perfezione spettacolare!”.
L'attore deve avere la capacità di essere credibile, e il talento non basta, ci vuole studio. Ciò che arriva a me, spettatore, devono essere i messaggi degli autori, gridati all'unisono, una perfetta fusione di idee e sensibilità.
Signori cari, a due giorni dal debutto, lo
spettacolo è pronto! The Italian Restaurant,
scritto e diretto dal Maestro Umewaka
Naohiko
e interpretato dagli studenti del DAMS, freme per mostrarsi al
pubblico.
Dopo cinque giorni di
conoscenza tra i partecinpanti, di esercizi di Teatro Nō,
di allenamenti, di domande, di dubbi, di rivelazioni, i movimenti in
scena concordati, la memoria degli attori è buona, la prova luci
superata.Ora si lavora sui dettagli dei movimenti, sulle intenzioni. Si ripete ogni scena una, due, tre, quattro volte, si cercano espedienti sempre più convincenti ed efficaci.
Il Maestro pretende
precisione, coordinazione delle azioni con la musica e lo studio
degli spazi.
Ce la stanno mettendo tutta
i ragazzi, ma la stanchezza bussa alla porta!I passi sono giusti, i ritmi rispettati, ma qualcosa viene meno rispetto a ieri: l'energia!
Sanno bene che in scena ogni parte del corpo deve essere attiva, scattante;
sanno che bisogna preparare le emozioni prima della battuta;
sanno che i sentimenti devono intravedersi coi gesti e non solo con le parole;
e sanno che durante la performance il pubblico aspetta con ansia di essere stupito, trasportato in una dimensione surreale, ancora una volta “il confine”, tra il reale e la finzione. Accontentiamoli!
Impegnati tutto il giorno in teatro, sotto pressione per i tempi ristretti, concentrazione costante sulle parole del Maestro, ripetitività dei movimenti, si rischia seriamente di scadere nella noia... sarebbe la fine!
Il trucco sta nel “saper ripetere tante volte la medesima scena, ogni volta con intenzioni diverse, con diversa espressività, la gente non si annoia”. Questo è Teatro Nō.
Il trucco sta anche “nell'unire ogni dettaglio sotto l'ala protettrice del protagonista”. Anche questo è Teatro Nō.
“Non è il nostro caso”- ribadisce il Maestro - “i dettagli non sono responsabilità solo del primo attore, bensì di ogni partecipante, coalizzati in un unico abiettivo: tendere alla perfezione spettacolare!”.
L'attore deve avere la capacità di essere credibile, e il talento non basta, ci vuole studio. Ciò che arriva a me, spettatore, devono essere i messaggi degli autori, gridati all'unisono, una perfetta fusione di idee e sensibilità.
Devono
ascoltarsi e sincronizzarsi: lo spettatore non vorrà vedere una
performance frammentata, discontinua, poco coordinata... quel tipo di
drammaturgia lasciamola stare, per ora!
Angela
Sciavilla
martedì 8 novembre 2011
Teatro NŌ, una tradizione contemporanea: la quarta giornata di laboratorio al CIMES
7 Novembre 2011
Il laboratorio del progetto Teatro Nō: una tradizione contemporanea organizzato dal CIMES centro di promozione culturale del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell'Università di Bologna continua. Siamo arrivati alla quarta giornata: stiamo imparando a conoscere un po' di più questo maestro e uomo straordinario che è il Maestro Umewaka Naohiko.
La mattina è stata dedicata al posizionamento delle luci e alle musiche. Non ho molto da dire a riguardo, se non un grazie al signor Roberto, il tecnico-luci, per la competenza e la disponibilità accordataci.
Come? Tutto qui?
No!!
Non
posso non spendere due parole (purtroppo solo due!) sul Maestro
Umewaka
Naohiko.
Non come
artista affermato in tutto il mondo, ma come uomo.
Tutti
lo conoscono come uomo “istituzonale”, composto, impeccabile, dai
saldi valori morali, regole ferree, zero eccezioni.
Impressionante
la distanza tra noi e il Maestro il primo giorno, lui seduto nella
parte alta della platea, noi ai piedi del palco.
Dovevamo
capirlo bene una volta per tutte: rispetto, rispetto, rispetto!
Si
percepiva della tensione nel suo sguardo: andava incontro a ragazzi
mai visti prima, di nazionalità lingua abitudini diverse, un tempo
di preparazione dello spettacolo ridotto...
É
bastato che i ragazzi mostrassero entusiasmo e fiducia nel lavoro,
voglia di imparare e sfidare il tempo tiranno, et voilà,
il maestro dona corpo e anima per il progetto.
Un'ascesa
di indizi, consigli, indicazioni...
Sperimenta,
spiega, interpella i giovani, mette in discussione il suo punto di
vista, svela nozioni di Teatro Nō, ci onora di alcune sue
dimostrazioni. Insomma, un Maestro nel teatro e nella vita!
“La cosa strana è che questa forma teatrale ha cominciato a contaminare la mia vita quotidiana, a confondere il teatro e la vita. […] Forse sono diventata io stesso il confine. La mia vita scorre ormai su quest due binari”.
Lo direste anche voi se lo vedeste all'ora di pranzo: noi tutti ci allontaniamo dal teatro per “distogliere i pensieri, riposare, distrarsi un po'. Lui no! Mangia nei camerini, continua a lavorare, studiare fino al nostro rientro.
Fine
pausa pranzo. Ci sorride, coniunge le mani, china il capo, si
ricomincia.
GO!
La
vita è teatro, il teatro è vita: potrebbe essere la sua
filosofia di vita?
Angela
Sciavilla
Teatro NŌ, una tradizione contemporanea: la terza giornata di laboratorio al CIMES
6 novembre 2011
Siamo ormai al terzo giorno di lavoro per il laboratorio di Teatro Nō che avrà come fase conclusiva la presentazione dello spettacolo The Italian Restaurant.
Il Maestro Umewaka Naohiko ha chiesto agli attori “la memoria” delle parti recitate per oggi.
Ed eccoli in sala prove coi copioni in mano che ripetono a bassa voce e abbozzano i movimenti, contano i passi, e giocano con dei cuscini rossi, fantastici!
È arrivato il Maestro. Tra le mani ha una maschera di carta da far indossare al protagonista, Mary Miyagi. Questa è solo una copia che sostituisce la vera maschera del Teatro Nō, fatta di legno, con dei buchi posti all'altezza degli occhi di ridottissime dimensioni; gli attori hanno a disposizione una visuale limitatissima e si servono quindi di punti fissi per orientarsi e di percorsi predeterminati. Non può guardare in basso, né verso l'alto, né di lato, solo di fronte. Ciò che l'attore non vede, lo deve immaginare!
Stuzzica la curiosità il veder sulla stessa scena Presente e Passato, Esistenza e Non-esistenza. Afferrano lo spettatore, lo lanciano nella finzione, per poi riportarlo nella Verità, come un'eterna trottola costretta ancora sul limite del Confine. Solo implorando pietà al Diavolo potranno risolvere questo stato di inesistenza. Lacrime e... vino rosso!
D'un tratto, non riuscivamo a scollare gli occhi dalla scena, una strana forza attrattiva ce lo impediva.
Kimono,
fiori di centocchio, ventagli, e maschere: sembrava si fosse
materializzata l'Essenza Orientale in sala. Effimere forze, opposte,
si attraevano inevitabilmente in un unico campo magnetico: Oriente e
Occidente, in un inevitabile connubio!
C'è
il Maestro in scena, mostra movimenti e passaggi intenzioni per i
movimenti di Mary
Miyagi.
É
inutile, non sono in grado di descrivere a parole le sensazioni, è
questione di vibrazioni da toccare, frequenza da captare dal
vivo.
Fine
della dimostrazione, tutto tace in sala! Ci guardiamo increduli, col
sorriso sulle labbra: abbiamo sentito vibrare l'Arte Somma,
non capita tutti i giorni!
Angela
Sciavilla
lunedì 7 novembre 2011
La dimostrazione di Nō del Maestro Umewaka al CIMES è una cascata di petali di fiori di ciliegio
Ascolta il rumore dei petali di un fiore di ciliegio
che cadono al suolo, ascolta il rumore dei passi che cadono sul palcoscenico
nudo. Ascolta il moto fra Est e Ovest, ascolta l’attore del Polo Sud mettendo
da parte quello del Polo opposto.
Domenica
6 novembre: dimostrazione di Nō del Maestro Umewaka Naohiko, presso spazio Sì – atelier di Teatrino Clandestino.
Un
fiore raggiunge la massima bellezza un attimo prima che i petali inizino a
cadere, un attimo prima della morte
(Filosofia zen)
Per la filosofia zen ascoltare i petali di un fiore
di ciliegio che cadono al suolo è uno dei più grandi godimenti estetici. La
dimostrazione di Nō del Maestro Umewaka è, abusando di questa metafora, una
cascata di petali di fiori di ciliegio. Ciò che essenzialmente ci attrae nella
figura attoriale, in questo caso specifico nel Maestro, è il modo in cui
quest’ultimo ri-modella artificialmente l’energia ricorrendo a un bios scenico,
a “salti d’energia”. Con la stessa
minuziosità con cui si allestisce un rito propiziatorio, crea un’atmosfera di
ombre e luci, di suoni riverberati, di passi trascinati, di pause e tonfi. Gli
spettatori cercano un contatto carnale con il teatro Nō. Viene a crearsi un vero
e proprio processo creativo, un legame ombelicale tra maestro e spettatore. Umewaka
ci invita ad abbandonare ogni contatto con il mondo reale. Siamo sottoposti a
un disorientamento volontario. Naufraghiamo. Scegliamo di essere naufraghi
consapevoli. Uno spaesamento che ci ri-conduce alle origini e a verità
dimenticate o sconosciute.
Si ricorda, prima dell’inizio effettivo della
dimostrazione, lo spettacolo The Italian Restaurant, regia e
testo di Umewaka Naohiko che andrà in
scena giovedì 10 novembre alle h 21 ai Laboratori DMS via Azzo Gardino, 65 a, e
che sarà aperto al pubblico.
In merito a questo, ci viene mostrata in anteprima
una delle due maschere che il protagonista indosserà durante la messa in scena.
È tipico l’uso della maschera per il teatro Nō. Una maschera, per natura
fredda, diventa l’espressione dei sommovimenti dell’animo.
La dimostrazione a cui assistiamo si compone di due
fasi: una dimostrazione sulle vocalizzazioni e una danza.
Si alza il sipario, si rompe la convenzionale quarta
parete… Luce soffusa, ma non troppo. Un riflettore puntato
in scena. Parte del pubblico siede a terra. Suoni, gorgheggi, a tratti melodia/canto,
a tratti tonfi. Una spinta diaframmatica bassa per ottenere tutto ciò. Una
partitura di suoni/rumori che evoca spazi e storie sepolte dalla memoria. Una
orchestrazione di suoni che ci riconducono alla nostra origine, a una
condizione fetale. L’aria densa si riempie di onde e vibrazioni, che vengono
subito assorbite dagli spettatori. Ci sono un filo venoso, uno strato di
tessuto corporeo, un tratto di intestino che legano il performer con lo
spettatore. Si forma una triade indissolubile: performer-palcoscenico-spettatore.
Il palcoscenico prende vita, diventa legno vitale, diventa albero, terra,
muschio, foglie. Un uso studiato e strumentalizzato delle corde vocali suscita
immagini visive, intere storie, drammi. Dalla voce si costruisce un vero e
proprio spazio scenico.
Applausi scroscianti, rami che si
muovono al vento. Piccola pausa e si comincia con la seconda parte della
dimostrazione.Il Maestro diventa corpo-interprete, un corpo
esecutore di gesti e ritmi extra-quotidiani. Un corpo vivo e vitale. L’obiettivo
è eliminare gli automatismi della vita quotidiana ricorrendo ai “salti
d’energia” che, in un secondo momento, si evolvono in “salti di pensiero”.
Movimenti meccanici che tagliano il palcoscenico come nervi tesi. È puro
dinamismo. È movimento frenetico che dai piedi percorre tutto il corpo. Piedi
trascinati per attrito sul legno del palcoscenico che costruiscono geometrie
ben precise. Nulla è lasciato al caso. Tutto è fermo. Tutto tace. Una pausa.
Nulla accade, perché tutto è già accaduto.
Angela Grasso
Teatro NŌ, una tradizione contemporanea: la seconda giornata di laboratorio al CIMES
5
novembre 2011
Mancano cinque giorni al debutto, il tempo dimezza a vista d'occhio, la pressione per una buona performace grava sulle coscienze dei ragazzi, e alcuni di loro cede.
E poi c'è chi sente la carenza di insegnametno della tecnica del Teatro Nō, chi dubita dei risultati da ottenere, chi non riscontra validi stimoli per rimanere e chi, addirittura, nega a quest'arte la capacità di migliorare la presenza del corpo sul palco. Molti abbandonano il progetto.
Il professor Matteo Casari spiega che l'approccio alla tecnica sarebbe più proficua se impegni lavorativi del Maestro non lo obbligassero a tornare in Giappone in anticipo, e per il problema della corporeità e del movimento...beh, discutiamone!
Ciò che preme insegnare loro è proprio la presenza sul palco: far sentire allo spettatore la potenza del personaggio. Ogni muscolo è contratto, pronto per scattare con agilità, precisione, all'unisono con la musica, in sincronia con l'altro. Il segreto è imparare ad ascoltarsi (e ascoltare!).
In scena c'è una ragazza in piedi, immobile, al centro, e altri due ragazzi sul lato destro, uno dei due con una torcia in mano che si fa luce, e scopre la scenografia: dei tavolini e qualche sedia intorno. Sembra non conoscere il luogo, ne scruta ogni dettaglio.
Mancano cinque giorni al debutto, il tempo dimezza a vista d'occhio, la pressione per una buona performace grava sulle coscienze dei ragazzi, e alcuni di loro cede.
E poi c'è chi sente la carenza di insegnametno della tecnica del Teatro Nō, chi dubita dei risultati da ottenere, chi non riscontra validi stimoli per rimanere e chi, addirittura, nega a quest'arte la capacità di migliorare la presenza del corpo sul palco. Molti abbandonano il progetto.
Il professor Matteo Casari spiega che l'approccio alla tecnica sarebbe più proficua se impegni lavorativi del Maestro non lo obbligassero a tornare in Giappone in anticipo, e per il problema della corporeità e del movimento...beh, discutiamone!
The
Italian Restaurant è
più di un progetto drammatico: è la scommessa giocata dal maestro
Umewaka
Naohiko
che scava nella sperimentazione per una “revisione della
tradizione”: il nuovo
Teatro Nō.
Ciò che preme insegnare loro è proprio la presenza sul palco: far sentire allo spettatore la potenza del personaggio. Ogni muscolo è contratto, pronto per scattare con agilità, precisione, all'unisono con la musica, in sincronia con l'altro. Il segreto è imparare ad ascoltarsi (e ascoltare!).
Ora i ragazzi sono poco più di
una decina, davvero motivati!
In scena c'è una ragazza in piedi, immobile, al centro, e altri due ragazzi sul lato destro, uno dei due con una torcia in mano che si fa luce, e scopre la scenografia: dei tavolini e qualche sedia intorno. Sembra non conoscere il luogo, ne scruta ogni dettaglio.
Fa
luce sulla donna, che, come una presenza eterea, si presenta: “Vivo
a Kyoto. Gestisco un ristorante italiano vicino al lago Nojiri a
Nagano...”
I
due ragazzi sono due samurai, reclamano da mangiare e... eh eh
signori, non possiamo svelare tutto, la sorpresa la riserviamo per
giovedì
10 novembre 2011 ore 21,
ai laboratori DMS!
Lasciatemi anticipare però, che
l'esistenza dello spettacolo vive sospeso sul confine tra l'essere
Uomo e Donna, umanità e bestialità. E che l'uso di semplici
oggetti, come la torcia elettrica, rimandano a concetti filosofici e
antropologici primordiali come la Vita e la Morte.
I temi sono gravosi per i
ragazzi, ma il Maestro li segue passo dopo passo e la complcità che
si instaura tra di loro sembrano delle ottime basi per proseguire.
Chissà perché quando si prova
con la musica sembra che ogni incertezza scompaia! Le note sostengono
i gesti, che acquistano vita propria.
Energia!
Gli attori sono carichi, il
Maestro soddisfatto della giornata.
Arigatou!
Angela
Sciavilla
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