venerdì 4 marzo 2011

La notte poco prima della foresta

Un grido straniero

Un grido, disperato e sognante, una rete lanciata in cerca di un’umanità ormai perduta. La rabbia e il dolore di un cuore fatto di sangue e lacrime, ferito e straziato dalle trappole del mondo. Questo il profondo sentimento che diventa carne attraverso l’opera di Bernard-Marie Koltès, La notte poco prima della foresta, interpretato da Claudio Santamaria, con la regia di Juan Diego Puerta Lopez e le musiche di Giuliano Sangiorgi, in scena al Teatro delle Celebrazioni di Bologna dal 21 al 22 gennaio.


In un labirinto di polvere e pietre, di eco e silenzio, il protagonista di questo lungo monologo, presentato per la prima volta al Festival Off di Avignone nel 1977 da un Koltès ventottenne, ricerca un “compagno”, un’anima libera simile alla sua da poter travolgere col suo flusso di coscienza senza argini. Si tratta di un vero e proprio delirio dell'anima, un profluvio di parole rivolte a un “tu” generico. È il grido disperato di uno Straniero, un viandante che non trova pace per le strade del mondo, perché il paese di cui sente nostalgia non ha nome su questa terra. Koltès, drammaturgo e regista francese infuocato da un costante desiderio di rivolta e protagonista di un'esistenza violenta, stroncata dall'AIDS, ambienta questo delirio dell'anima, fatto di voce e non di azione, all'interno di una sorta di paradiso perduto, effigie di un’innocenza ormai tradita. Ed ecco che la scena si riempie di idee, ricordi, immagini a metà tra il sogno e un passato che odora di nostalgia, di rabbia, di pioggia. L’unica possibile via d’uscita è il disperato tentativo di smuovere le coscienze, di creare un “sindacato internazionale” contro le invisibili ma palpabili forze dei “bastardi tecnici” che giocano coi fili del mondo e cercare una stanza, non per tutta la notte, anche solo per qualche ora. Una stanza che possa assomigliare a quella terra promessa, almeno per riposare un po’.

Nello spettacolo la parola diventa suono, amplificazione, ritmo. Un battito continuo, costante, un urlo che richiede silenzio, la pausa di tensione che precede e contiene la necessità del battito successivo. È il segreto della creazione continua. Un continuo evolversi di un rito di passaggio nel buio fitto della foresta. Si tratta di una foresta idilliaca come quella del Nicaragua, un territorio in cui perdersi per poi ritrovarsi; una sorta di eden appunto. Una foresta del tutto dissimile da quella di conradiana memoria, fatta di orrore e di uomini che si sostituiscono a Dio, proprio come quella terra in cui il grido di Santamaria risuona straniero.
L’immagine che rimane viva nella mente è quella di un uomo, esploso dalla rabbia e dal dolore del sopruso, nel corpo e nell’anima, che batte nel buio una fredda asta di ferro contro un muro rigido e incompleto, ma alto abbastanza per impedirne il superamento. Ciò che conta davvero non è quel muro, non è quella polvere che crolla dall’alto nel mezzo di quelle rovine, non è neanche quella rabbia, ma è quella scintilla, tra l’asta di ferro e il muro, che squarcia il buio. Una scintilla di fuoco ancora viva e pulsante, tra le tenebre più scure dell’animo umano. E così questo unico quadro non ha più autore, né nome, perché appartiene, in modo unico e diretto a me, “a te, compagno”.

Daniela Delzotti

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