mercoledì 27 febbraio 2013

Karamazov: la prova di come linguaggi diversi possano servire la stessa arte



“La solennità è nemica del teatro”. Forse basterebbe citare questa lapidaria riflessione, rubata alle note di regia tra un caffè solitario e un origliare nascosto nei mille brusii della mente intenti a ricostruire i fili conduttori della letteratura russa, per dare un assaggio della regia di César Brie e del suo Karamazov. Ma nulla può sostituire l’impatto con la scena, con la sua semplicità maestosa e possente: tavole di legno inchiodate formano panche che, all’occorrenza, diventano piccoli palcoscenici della narrazione e si trasformano in tavoli battuti dai bicchieri,


teatrini animati da burattini, luoghi scenici in cui l’immenso capolavoro dostoevskijano viene smembrato, sintetizzato, riscritto e assemblato. Per dirlo con le parole del regista, viene “trasformato in teatro”. A dare inizio allo spettacolo, la maestosa figura di César Brie: uno sguardo d’intesa con i suoi attori, una preghiera di rispetto al suo pubblico. “Spegnete i cellulari. Adottate occhi puri. Iniziamo”. E la scena diventa teatro, i personaggi vengono vissuti dagli attori che sin dall’inizio accolgono lo spettatore: non c’è passaggio tenuto nascosto nel lavoro d’interpretazione, non c’è crescita simulata, non c’è sipario a velare la finzione nei cambi di scena. Le luci sono a vista, gli abiti attendono i loro abitanti disposti su grucce simbolicamente modellate come croci cristiane


(e la mente divaga, ritrova legami con scenografie già viste, rivedendo in quell’impianto una certa somiglianza con il secondo episodio de La trilogia degli occhiali di Emma Dante), le azioni sono pulite e l’intreccio non perde il suo fascino, traducendosi da descrizione a svelamento, da racconto letterario a spettacolo teatrale. La storia dei tre fratelli Karamazov e dei milioni di personaggi orbitanti attorno alla loro vita rivive in piccoli e sapienti artifici registici, che permettono alla trama di dipanarsi senza soffocare l’attenzione del pubblico: i passaggi più arditi e tumultuosi vengono assemblati in blocchi animati da marionette agite dal racconto, fasci di luce collegano storie nello spazio e nel tempo della narrazione, funi vibranti coprono distanze letterarie e accorti movimenti scenici collegano il linguaggio teatrale a quello pittorico, velando la passione che anima l’intellettuale e dubbioso Ivan e la tumultuosa Katrina con Gli amanti di Magritte


senza dimenticare come la sofferenza per la morte della madre e l’angoscia per l’umano accomunano l’animo del pittore alla verve del personaggio. Lo spettatore vive ogni singola scena, ne sente la presenza, la realtà nei materiali usati, la fatica del lavoro che ha portato a usarli. Si sente il legno che scheggia le nocche, le funi che scoccano sul magnifico tappeto istoriato (non perché vi siano dipinti sopra scene o personaggi, al contrario i colori fusi sulla superficie scenica riescono a trasformarsi, di volta in volta, in luoghi perfetti per accogliere i passaggi e le ambientazioni del dramma) e non c’è brivido sulla pelle che non passi prima dalle sapienti mani di César Brie. Esemplare è la costruzione della scena dello stupro, genesi della sofferta genialità di Smerdjakov: l’uovo, simbolo della vita e della fecondazione, diviene metafora del grembo materno stuprato e sconquassato dalla violenza del lussurioso Fëdor. Nel rosso liquame si affoga il volto del corpo violentato e da quello stesso liquame è coperta la logica e impassibile crudeltà del quarto erede Karamazov. Non ci si dimentica del piccolo Iljuša, della sua sofferenza per l’umiliazione recata al padre da Dimitrji: non ci si dimentica in generale dei bambini, dell’infanzia come luogo primario nella formazione dell’individuo e nello sfogo della crudeltà umana.


 I manichini creati da Tiziano Fario ricordano la piccola Rosalia Lombardo nascosta nelle cripte palermitane, e abitano con gli attori la scena sin dal principio ricoprendone le stesse funzioni: con loro si prestano a dare vita a vari personaggi e con loro passano da un filone narrativo all’altro arrivando a raccogliere il silenzio della scena dopo la morte del piccolo Iliuša. Rimangono solo i tre pupazzi a guardare fisso il pubblico, mentre una voce lontana intona un canto. La magia continua, l’energia non si disperde, lo spettacolo tiene alta la guardia, quasi non volesse finire. Rimangono solo tre corpicini a raccogliere il sospiro del pubblico, il minuto di attesa, l’applauso, il pianto commosso di Clelia Cicero e il buffetto affettuoso di César Brie ai suoi attori. È un sospiro che dovrebbe salutare la catarsi e precedere l’uscita, ma l’uscita da che cosa?
Non si esce dalla realtà nel vedere Karamazov, semmai si entra in un nuovo modo di raccontarla. Si entra a far parte di una finzione scenica che non potrebbe essere più lontana dalla falsità e più vicina alla realtà.
17/02/2013. Teatro delle Passioni, Modena.

Elvira Scorza


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